Lavorare di testa e di cuore
Noemi Bazzanini, infettivologa, in prima linea nell’emergenza Covid-19 all’Ospedale di Parma. Ha svolto servizio con il Cuamm in Tanzania. Due esperienze diverse, uno stesso approccio.
Noemi Bazzanini, infettivologa, è in prima linea nell’emergenza Covid-19 all’Ospedale di Parma. Nel 2018, ha svolto servizio con Medici con l’Africa Cuamm come Jpo e medico in malattie infettive a Shinyanga e Songambele, in Tanzania. Due esperienze diverse, uno stesso approccio.
Noemi, è vero che siamo uniti in un unico abbraccio?
«C’è stato un piccolo, concreto gesto di solidarietà da parte del Cuamm all’Ospedale di Parma per dire davvero che siamo uniti in un unico abbraccio e che ci si salva insieme. Ho apprezzato molto il gesto ma soprattutto il suo significato, il messaggio di vicinanza che porta con sé. Il coronavirus ci ha dimostrato proprio quanto siamo collegati. Spero che da questa situazione, possiamo uscirne più forti e uniti».
Cosa vuol dire essere infettivologa prima in Africa e poi dentro l’epidemia Covid-19?
«In Africa, sei sì infettivologa, ma magari sei anche l’unico medico “occidentale” di riferimento e quindi ti devi occupare di tanti aspetti diversi. Il ruolo è meno definito, i pazienti sono veramente di tutte le età, anche bambini, cosa rara in Italia. Ti confronti con la carenza di risorse e di farmaci. Così è avvenuto durante l’epidemia: ci siamo dovuti adattare a fare quello che si poteva, misurandoci con la mancanza di risorse, fino al punto di dover valutare, a volte, chi potevamo curare. Come medico resti sempre “tu”, cerchi di fare quello che puoi, con quello che sai. Cambiano gli strumenti e il contesto, non l’approccio».
Dove vedi importante lavorare adesso per far fronte al contagio?
«Il Covid sembra lasciare un po’ di respiro agli ospedali, ma ora la “battaglia” si fa sul territorio. Se si vuole controllare l’epidemia, è necessario lavorare sul territorio, ricostruire e rafforzare la rete per agire nella seconda fase. Fare prevenzione è importantissimo, così come lo è il ruolo dei medici di base. Investire nel sistema sanitario è essenziale. Un sistema sanitario che funziona dipende dalla sinergia tra livello ospedaliero e territoriale, dal confronto con le persone. In questo senso, l’Africa è un esempio: c’è un forte senso di comunità e il lavoro sul territorio è la chiave per “fare salute” efficacemente, in particolare grazie alla rete degli attivisti comunitari che arrivano fino alla famiglia. In Africa sei tu come medico che devi inserirti nella rete di istituzioni e comunità e questo aiuta a capire anche l’importanza del “fare insieme”».
In questi giorni difficili, cosa ti ha insegnato l’Africa, anche dal lato personale?
«L’Africa ti restituisce la dimensione del limite come persona e come medico. Per gli Africani il senso del limite è chiaro, mentre qui da noi c’è quasi la negazione della morte. L’Africa ti restituisce l’accettazione che la morte fa parte del naturale corso delle cose e questo mi è stato d’aiuto in questa emergenza. Sapere che a volte non puoi far altro che fermarti».
E dal lato professionale e tecnico?
«L’aspetto che più condivido con il Cuamm è proprio l’attenzione verso i più fragili. E per lo stesso motivo credo sia necessario partire dalla persona, dalle comunità nei contesti difficili anche qui da noi, per iniziare a costruire piano piano dalla base».