Medici con l'Africa Cuamm

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LAVORO INTERDISCIPLINARE, SPRITO DI SQUADRA E UMANITÀ

Nicola Vinassa, ortopedico, si è trovato in prima linea nella gestione di Covid-19 all’Ospedale di Chivasso. Un’esperienza che ha riattivato competenze e sensibilità del servizio svolto con il Cuamm in Etiopia, Uganda e in Tanzania.

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    Un’emergenza dura, ma anche istruttiva, con un occhio sempre attento alla situazione in Africa. Nicola Vinassa, ortopedico, si è trovato in prima linea nella gestione di Covid-19 all’Ospedale di Chivasso. Un’esperienza che ha riattivato competenze e sensibilità del servizio svolto con Medici con l’Africa Cuamm in Etiopia, Uganda e in Tanzania, paese che più di tutti gli è rimasto nel cuore perché è lì che lui e la moglie si sono incontrati.


    Come sei passato dal fare l’ortopedico a gestire l’emergenza Covid?
    «All’inizio di marzo, l’ospedale è diventato “Covid Hospital” e tutti i reparti sono stati riorganizzati per accogliere i pazienti. Gli interventi chirurgici sono stati cancellati o trasferiti a Ivrea. Noi operatori sanitari siamo rimasti in pochi in servizio perché molti si sono ammalati. Proprio la settimana scorsa, sono risultato positivo al tampone. È una situazione faticosa psicologicamente perché sai che potresti contagiare gli altri e, vivendo con mia moglie e mia figlia, sento anche la responsabilità nei loro confronti. Nonostante il calo di accessi in pronto soccorso, eravamo solo 3 ortopedici a coprire tutti i turni per la gestione dei pazienti Covid. È stata un’esperienza dura umanamente e professionalmente, soprattutto nelle prime settimane quando abbiamo dovuto creare nuovi posti in rianimazione, occupando tutti gli spazi possibili, e abbiamo dovuto gestire la perdita di molti pazienti. Allo stesso tempo, è stata un’esperienza gratificante perché mi ha permesso di svolgere un vero lavoro interdisciplinare, collaborando con i colleghi infettivologi, internisti e con gli infermieri».


    Come è stato il rapporto con i pazienti in questi mesi?
    «Dopo molti anni di professione, si ha un po’ la tendenza a “spersonalizzare” il malato che diventa la sua patologia. In questa emergenza sono riemersi molti tratti che nel lavoro quotidiano a volte si perdono. Ho ammirato l’umanità, la competenza e la passione degli infermieri che sono diventati la famiglia di questi pazienti e che hanno dimostrato sempre la massima cura. Poi, il lavoro dedito e attento dei colleghi internisti, specialmente nel dare notizie alle famiglie dei pazienti. Spero che tutto questo rimanga».


    Hai riconosciuto l’Africa nel tuo lavoro qui?
    «In questa emergenza, sono riemersi molti aspetti “dell’essere medico” in Africa, dalla paura di contagiarsi e di contagiare al contatto con il dolore, il limite, la morte. E ancora, il sapersi reinventare quando non hai sufficienti mezzi a disposizione, anche qui in Italia dove “il tanto è comunque poco”. Quando ho prestato servizio ad Ikonda con il Cuamm, ho fatto il pediatra, il ginecologo, il chirurgo, insomma tutto quello che era necessario in quel momento. Durante questi mesi abbiamo lavorato in team, come si fa in Africa, dove ognuno mette a disposizione la sua competenza per trovare la soluzione migliore. Ci siamo ritrovati a lavorare senza orario e a prestare molta più attenzione alla persona anche con piccoli gesti».

    Etiopia


    Come credi che evolverà la situazione in Africa?
    «Penso spesso a cosa potrebbe succedere, continuo ad avere contatti in Tanzania e ho paura. C’è un abisso fra le nostre possibilità qui e le loro. Non ci sono laboratori, non ci sono respiratori e se dovesse arrivare il virus con lo stesso impatto, sarebbe un disastro. Per cercare di mitigare gli effetti, bisogna potenziare il lavoro sul territorio, con le comunità perché la differenza avviene lì. Il nostro cuore è sicuramente in Tanzania, è lì che ho conosciuto l’Africa e mia moglie, ma anche le altre esperienze seppur più brevi sono state significative. Il nostro sogno, dopo la mia pensione, sarebbe ripartire per un periodo più lungo».

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