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Entrare nel contagio per portare aiuto

“Vedo le infermiere arrivare, magari giovani mamme, preoccupate, destinate ai reparti con pazienti positivi al Covid-19: vedendole lavorare, entrare e uscire dalle stanze, correre, non posso che ammirarle. Si vede che hanno paura, però entrano”.


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    La testimonianza di Mauro Brighenti, medico rientrato, anestesista all’Ospedale Vittorio Emanuele III di Carate-Brianza.

    Un lavoro stravolto
    Anche se con difficoltà, provo a raccontare qualcosa che stiamo vivendo in questo periodo nel nostro lavoro di operatori sanitari. Il virus è arrivato quasi di soppiatto e ha poi invaso il nostro piccolo ospedale, che ha dovuto accogliere ogni genere di gravità. In poco tempo siamo stati invasi dai pazienti, provenienti anche dalla provincia vicina. Abbiamo cercato di far fronte a tanti problemi clinici e di tipo organizzativo a cui non eravamo preparati. Soprattutto non eravamo preparati a questa realtà di grande dolore. Una situazione nuova per tutti, in cui, chi si reca in ospedale per delle cure, potrebbe non avere più contatto con i propri cari, nemmeno da morto.

    Il dolore ci ha messo tutti in crisi
    Ci ha messo in tensione. Ci ha fatto paura. Paura di non essere protetti e di essere noi stessi contagiati. Mentre tutti, attraverso ordinanze e multe, vengono invitati a stare lontani l’uno dall’altro, a non aumentare il contagio, a non uscire di casa, noi invece siamo invitati ad andare nel contagio. In realtà nessuno di noi impegnato nell’assistenza ai malati sta bene. Tutti non dormiamo. Penso che tutti, più o meno, piangiamo. Non riusciamo a dormire perché ci torna alla mente il dolore di una moglie o di un figlio a cui comunichiamo la scomparsa di un caro. Dolore che a volte è disperazione e altre volte diventa accusa nei nostri confronti, colpevoli di non aver fatto tutto quello che si doveva. Così come ci commuove profondamente sentirci ringraziare nonostante la brutta notizia che abbiamo comunicato. Non dormiamo perché la mente corre agli ammalati per i quali non c’è posto in terapia intensiva, alle liste di attesa per poter trasferire i pazienti che stanno peggiorando che non diminuiscono mai. Il pensiero va alle parole che i pazienti dicono ai loro familiari magari con il nostro aiuto, che reggiamo il cellulare prima di perdere il contatto con loro. Ci sono persone che vengono ricoverate, si aggravano e muoiono senza vedere o essere riviste dai loro cari. Ogni volta che un paziente muore, c’è un grandissimo dolore tra tutto il personale che lo assiste. Sono partenze inaspettate e veloci. Non sono solo anziani.

    Come in Africa
    Personalmente posso dire che quanto entro in ospedale, dico a me stesso «Speriamo di no…però sono pronto a dare la vita». Perché non so mai se quella manovra, quel contatto, quello stare insieme al malato, sarà la volta che mi infetto. E avendo visto persone morire a causa dell’infezione, mi chiedo «Perché io no? Che cosa ho di diverso?». È un pensiero che abbiamo tutti.
    Penso che questa epidemia ci abbia un po’ avvicinato ai popoli africani, che conosco un pochino. Questo essere in balia di qualcosa che non dipende da noi. Che può decidere della nostra vita, a cui non c’è rimedio e a cui bisogna sottostare. A noi è capitato questa volta, a milioni di persone capita ogni giorno. Come anche stare vicino a chi muore senza poter far nulla, è un’esperienza che in Africa mi è capitata più volte. Magari anche per patologie che erano curabili, ma non c’erano le condizioni per farlo e quindi si condivideva solo il dolore cercando di alleviarlo un po’. In questo, devo dire, sono stato avvantaggiato.

    Recuperare l’essenziale
    Posso anche raccontare delle tante cose belle che sono successe, delle tante piccole gare di solidarietà. Come ad esempio le mamme del paese che hanno confezionato mascherine di doppio strato di stoffa. Hanno trasformato i parenti in sarti, hanno convinto i negozi a donare le stoffe. Hanno chiesto al sindaco che gli prestasse la macchina con il vigile per poter andare dove non si dovrebbe, a recuperare il materiale. È il loro modo per ringraziare e per incoraggiarci. In ospedale, questa tragedia ha fatto piazza pulita di tante stupidaggini, di tante diffidenze, di tante separazioni e pregiudizi. Abbiamo magari litigato, ci siamo scontrati, ma alla fine abbiamo solo potuto rimetterci insieme e lavorare insieme. Quindi chirurghi, ortopedici, che si sono messi a fare il lavoro degli internisti, a imparare come si valutano i parametri della respirazione. Siamo diventati tutti esperti oramai. In questa situazione di grande dolore che toglie il sonno, quello che mi rimane è la preghiera. A tutti quelli che mi chiedono come sto, io chiedo di pregare. Per me, per tutti, e per tutto questo dolore. La fede ci dice che tutto viene da Dio e anche il dolore è amore di Dio…io riesco ancora a crederlo. E prego.

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