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Portare nel cuore

Maria ha 26 anni e sta svolgendo il servizio civile come infermiera a Pujehun in Sierra Leone. Qui è venuta in contatto con una realtà molto diversa dalla nostra, talvolta difficile da comprendere, ma dove si riescono a creare relazioni autentiche e di vera fiducia.

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    «Prima di partire ti dicono che vedrai morire tante mamme e bambini, ma mi sono sentita relativamente tranquilla. Mi dicevo: “ok, ma quante persone vedo morire anche in Italia? In qualche modo sono – orribile a dirsi-  abituata”. Solo in Africa capisci quanto sia diverso, molto diverso, perché molto spesso a morire sono i giovani e ti rendi conto che se fossero stati in Italia non sarebbero morti. La cosa a volte ti fa impazzire. Soprattutto con i bambini. Stai lì e vai avanti e cerchi di rianimare, ma alla fine, a un certo punto capisci che è il momento di smettere». Ha la voce incrinata e le lacrime che le rigano le guance, Maria Contiero, quando seduta sul divano del Cuamm, mi racconta cosa è per lei vivere e fare il servizio civile a Pujehun. Ha 26 anni, è una giovane infermiera di Bassano del Grappa. Partita ad agosto per la Sierra Leone, è tornata a casa per un po’ di ferie e di stacco, in occasione del Natale. E staccare è proprio indispensabile perché Pujehun è una zona rurale, lontana dalla capitale, un luogo in cui non c’è nulla, se non l’ospedale e hai proprio bisogno di staccare la mente da tutto quel dolore, inspiegabile.

    «Noi, europei, non siamo abituati quanto loro a questo e la reazione che abbiamo è molto amplificata, perché per noi ci sono delle situazioni assurde che non riusciamo ad accettare e affrontare. Quando le cose vanno male qui dicono, semplicemente: “Only God knows”. E quando vanno bene o sono stabili ripetono, come un mantra, “Thank God”. Ogni volta, mi sembra di sentire un pugno allo stomaco: mi dice che hanno talmente interiorizzato lo status quo che non danno per scontato nulla e nella fede – qualunque essa sia – e cercano rifugio».

    E prosegue: «Vedere morire un bambino per malnutrizione, per malaria che poi si complica per un’infezione, per una polmonite curata con erbe. È qualcosa di inaccettabile. E poi c’è sempre il problema che il bambino arriva in ospedale troppo tardi, quando i rimedi della medicina tradizionale hanno peggiorato gravemente la situazione e, così, magari muore per intossicazione. Casi che capitano spesso sono le ustioni, che però arrivano dopo diversi giorni. Ricordo Isata, una bimba di 3-4 anni. Ustionata in un modo così grave che non è stato possibile curarla e abbiamo dovuto mandarla a Freetown. Il decorso è andato bene, ma poco dopo è ritornata in ospedale a Pujehun perché era caduta proprio nella sede delle ustioni precedenti e si era sovra-infettata. Una situazione difficile e dolorosissima. Andavo a trovarla spesso, specie quando era il momento delle medicazioni che per lei erano un vero incubo. Con lei sono riuscita a creare un legame di fiducia e di affezione».

     

    E continua: «Ho sperimentato davvero che è nelle forme di più grande bisogno e sofferenza che nascono delle relazioni vere, di fiducia. Come quella con Alimatu. Ha 33 anni. 6 o 7 figli. L’ultima partorita a metà settembre. Dopo un po’ torna in ospedale a causa di dolori fortissimi all’addome. Non parla inglese, solo il dialetto locale, il mende. Non vuole il sondino nasogastrico, si rifiuta categoricamente perché lo associa a un grande dolore. Mi sono seduta vicino a lei e con l’aiuto dell’infermiera le ho spiegato a cosa serviva e perché glielo mettevamo. Dal sondino esce del liquido non compatibile con quello prodotto dal corpo, chissà che erbe medicinali aveva ingerito.  Diagnosi di peritonite tubercolare. Si è fidata e ha accettato. Un po’ alla volta è guarita e quando è toccato a me ammalarmi, a causa della malaria, mi ha regalato un casco di banane, nella speranza che io guarissi e tornassi presto in ospedale. La foto che ho scattato con lei, alle tanto anelate dimissioni, sarà la prima che stamperò una volta tornata a casa. La porterò sempre nel cuore. Come rimarrà sempre indelebile il ricordo di Mabel, un’infermiera locale a cui ho insegnato come fare correttamente il fluid balance. Ha capito e messo in pratica subito i miei insegnamenti. Quando vedi anche solo un piccolissimo miglioramento, provi una grande soddisfazione».

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