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Mozambico e Coronavirus Tre voci, tre fronti di impegno 

Il Cuamm in Mozambico si mobilita contro il Covid-19 grazie allo slancio dei volontari e a collaborazioni inattese.

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    In Mozambico non si registrano ancora vittime di Covid-19, ma ci sono 41 casi confermati su un migliaio di sospetti testati. Numeri molto bassi per un paese di trenta milioni di abitanti, la cui capitale Maputo, l’area più colpita al momento, non è lontana dal confine con il Sudafrica: il paese più colpito a sud del Sahara, con oltre 3.600 casi notificati. Con un solo laboratorio che può confermare la positività al virus a livello nazionale e la consapevolezza che la metà dei casi sono asintomatici, è molto probabile che i numeri non rappresentino la reale circolazione del virus nel Paese.

    Medici con l’Africa Cuamm sta lavorando da più di un mese e mezzo a stretto contatto con il ministero della salute mozambicano, sia a livello nazionale che provinciale, partecipando ai tavoli tecnici per organizzare una risposta al coronavirus che metta al primo posto la prevenzione, come spiega Laura Nollino, medico endocrinologo arrivata in Mozambico un anno fa per occuparsi di diabete:

    «Abbiamo un vantaggio di tempo che dobbiamo usare al meglio per non essere travolti dall’epidemia. Stiamo cercando di usarlo per creare misure di contenimento del virus e protezione del personale sanitario, che non si deve ammalare. Anche qui, forse più che in Italia, è difficile trovare mascherine e altri strumenti semplici ma indispensabili per prevenire la diffusione. Il ministro della sanità ha dichiarato che ci sono 34 respiratori nel paese, sono importanti ma non pensiamo siano la soluzione: ce ne potrebbero essere anche di più, ma mancherebbero i medici che sappiano utilizzarli. Nel Paese c’è meno di un medico ogni 10.000 abitanti ed io stessa non saprei usare un respiratore, perché non sono una rianimatrice. Per questo la prevenzione e la formazione sono la chiave per evitare un disastro».

    Giovanna De Meneghi invece è in Mozambico da due anni, dopo aver vissuto nella Sierra Leone del post-Ebola e come country manager è responsabile del coordinamento dei progetti, che continuano ad essere attivi nelle province di Tete, Sofala e Cabo Delgado, a cui si aggiunge in questo periodo il supporto alle attività sanitarie distrettuali di Maputo, Zambezia e Nampula. Come gli altri colleghi lavora da casa, limitando i contatti sociali e le uscite:

    «È molto strano e un po’ faticoso. Il governo lo scorso primo aprile ha dichiarato, per la prima volta dalla pace del 1992, lo stato di emergenza: sono limitati gli spostamenti e nei luoghi pubblici, o quando non è possibile garantire la distanza di un metro e mezzo, tutti devono indossare le mascherine chirurgiche o mascaras caseiras di capulana realizzate secondo le indicazione dell’OMS . Un anno fa eravamo nel mezzo nel mezzo della gestione dell’emergenza legata ai cicloni Idai a Sofala e Kenneth a Cabo Delgado, che avevano distrutto case, centri di salute ed ospedali, oltre ad aver causato più di 600 morti e molti dispersi. Adesso siamo nel mezzo di un’emergenza globale: sono anni intensi per il Mozambico».

    Lo stato di emergenza non ha per il momento portato ad un lockdown totale delle attività, come invece successo in altri Paesi africani, che hanno imposto blocchi anche alle attività commerciali. Edoardo Occa, antropologo e responsabile delle attività comunitarie di Medici con l’Africa Cuamm, spiega:

    «Una città africana vive di economia informale, in strada. Impedire alla gente di vendere e incontrarsi in strada è una scelta problematica, che può avere un impatto immediato sulle entrate economiche di molte famiglie che vivono alla giornata».

     

    Nelle comunità una rete di 500 attivisti

    Proprio Edoardo Occa partecipa per Medici con l’Africa Cuamm ai tavoli tecnici sul tema della salute comunitaria:

    «Come Cuamm – spiega – possiamo contare su una rete di 500 attivisti che già lavoravano con noi nelle loro comunità di appartenenza per combattere l’Hiv e favorire la salute materno infantile».

    Questa rete preziosa è stata quindi formata per diffondere messaggi di sensibilizzazione sul coronavirus, lavorando in piccoli gruppi per rispettare il distanziamento sociale. Il virus infatti non cambia solo le abitudini sociali, ma anche l’approccio alla comunità. Continua Occa:

    «Mentre prima gli attivisti andavano casa per casa ad incontrare le persone, oggi abbiamo dovuto cambiare strategia, per limitare i contatti tra le persone. Abbiamo prodotto spot radio che vengono diffusi in sette dialetti differenti, per arrivare a tutti, e abbiamo montato degli amplificatori sulle macchine che usiamo per i progetti, che girano per i barrio di Beira, Tete o Quelimane diffondendo le stesse raccomandazioni. A Cabo Delgado è nata anche una collaborazione positiva: il consiglio islamico della città ci ha permesso di mandare in diffusione i messaggi usando gli amplificatori dei minareti».

    Oltre alla lotta alle fake news sul virus e all’elaborazione di nuove pratiche sostitutive per i riti legati alla nascita e alla morte, molte altre abitudini devono essere riviste, in Mozambico come nel resto del mondo. Per esempio si sta lavorando, in collaborazione con il ministero della salute, alla creazione della figura della “sentinella epidemiologica”: un attivista comunitario che sarà punto di riferimento per il villaggio e farà da filtro tra i casi sospetti e le strutture sanitarie, indirizzando all’ospedale solo chi è veramente a rischio e seguendo le persone a casa, in modo che con gli spostamenti tra villaggi e strutture sanitarie il virus non si diffonda più del dovuto.

    «Molti di questi attivisti sono semplicemente volontari – racconta Edoardo Occa – e svolgono questi nuovi compiti, che spesso li espongono a rischi, con uno spirito di servizio per la comunità ammirevole. Dobbiamo fare cambiare abitudini alle persone: è dura, per tutti. In molti casi il virus metterà in discussione sistemi di potere consolidati nelle comunità, ma sono le persone a cambiare i comportamenti e per questo avere dalla nostra parte molti attivisti motivati e influenti è per noi indispensabile in questo momento».

     

    L’Italia vista dal Mozambico

    «Sempre pensando al post-ciclone di un anno fa – racconta Giovanna De Meneghi – mi viene in mento come l’Italia ci abbia aiutato prontamente, mandando aiuti e sostegno economico. Adesso, almeno per quanto riguarda famiglia e amici, siamo noi a dover aiutare a capire un po’ come muoversi, capire come vivere in uno stato di emergenza. Come cooperanti siamo un po’ più abituati a situazioni di questo genere: incertezza e sospensione in contesti fragili sono frequenti. Ora tutti nel mondo ci dobbiamo abituare a una nuova normalità».

    «Come medico – ammette Laura Nollino – quando l’epidemia in Italia era al picco ho pensato seriamente di tornare in Italia, per rendermi utile. Questa emergenza ci ha toccati tutti da vicino: le nostre famiglie spesso si trovano tra Lombardia e Veneto, non è stato facile decidere di rimanere. Poi ho capito che sarebbe stato altrettanto utile fermarsi qui, per prepararci ad un’ondata che potrebbe arrivare. E poi il virus non è l’unico problema: abbiamo ridisegnato i progetti per affrontare anche il virus, io prima mi occupavo di diabete e i pazienti continuano ad avere bisogno di cure, come i sieropositivi, o come le donne che devono andare a partorire in ospedale. Anche per loro è giusto rimanere, oltre che per il personale sanitario con cui lavoriamo, che è  indispensabile e che dobbiamo formare e proteggere dal virus il più possibile».