Come fari nell’oceano
Manuela Lucenteforte, rientrata dall’ Etiopia, non sapeva che a breve l’aspettava il confronto con l’emergenza di Covid-19, giorni duri, nei quali ritrovare tutta la forza allenata in Africa.
Abbiamo conosciuto Manuela Lucenteforte sul palco del teatro Verdi all’Annual Meeting di Firenze, lo scorso anno, rientrata dalla sua esperienza all’Ospedale St. Luke di Wolisso, in Etiopia, grazie alla collaborazione tra Cuamm e Sism (Segretariato italiano studenti di medicina). Manuela aveva da poco cominciato la specialità di Anestesia e Rianimazione all’Istituto europeo oncologico di Milano (IEO). Non sapeva che l’aspettava il confronto con l’emergenza di Covid-19, giorni duri, nella quali ritrovare tutta la forza allenata in Africa.
Come stai vivendo questo periodo intenso?
«Da metà marzo, sono stata spostata nel reparto di Rianimazione dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. All’inizio le terapie intensive erano pienissime, con pazienti in attesa di posti letto che non bastavano per tutti. Ogni letto assumeva un peso incredibile e decidere a chi spettasse generava ansia e preoccupazione, perché dare il posto letto ad una persona significava “toglierlo” ad un’altra. Abbiamo fatto letteralmente i conti con la disponibilità di risorse e di letti nei reparti. Oggi ho ripreso servizio allo IEO. I turni continuano ad essere di 10-12 ore, ma sto bene e questo è fondamentale, e cerco di gestire le preoccupazioni giorno per giorno. Per noi che siamo immersi così tanto nell’emergenza, è difficile rendersi conto davvero dei miglioramenti. Nell’ultima settimana, ci sono stati due posti liberi in terapia intensiva, impensabile anche solo qualche giorno fa. La sensazione è stata davvero strana».
Cosa ti sta insegnando questa esperienza?
«Ha reso più chiaro quello che sapevo già, che il sistema sanitario è fondamentale. Quando penso all’Africa, dove il contesto e i sistemi sanitari sono molto più fragili, penso agli ospedali dove interviene il Cuamm come “fari in mezzo all’oceano”. Allo stesso tempo, anche il lavoro sul territorio è essenziale, in Italia ma soprattutto in Africa, dove la prevenzione e la sensibilizzazione delle comunità diventano le “armi” principali».
Come vivi la fine di un turno?
«Non si riesce mai a staccare, proprio come in Africa. Normalmente, quando finisci di lavorare, trovi fuori la vita che pullula e questo ti permette di distrarti. Ora esci dall’ospedale e non è così, strade completamente deserte fino a pochi giorni fa, persone con le mascherine, arrivi a casa e ti ritrovi a leggere articoli su Covid. Rimani immerso negli stessi pensieri. In Africa, era proprio quello che mi aveva destabilizzata inizialmente: la tua vita è praticamente sempre in ospedale. Perciò credo che sia importante tutelarsi anche psicologicamente».
C’è un po’ di Africa nel tuo lavoro qui?
«Sin dall’inizio dell’emergenza, ho ripensato più e più volte all’Africa. Ogni mattina, andando al lavoro in bicicletta, vedo sorgere il sole e provo un senso di nostalgia che mi riporta lì con il pensiero. Anche nella quotidianità del lavoro, mi sono ritrovata a fare dei confronti: rendersi conto che anche qui mancavano risorse, farmaci mi ha riportato a Wolisso. E ancora, ho pensato a come noi e gli Africani affrontiamo con un approccio diverso le emergenze e le problematiche sanitarie. Abbiamo un rapporto diverso con la vita e la morte che per loro fa parte della quotidianità e del naturale corso delle cose. Accettano che l’uomo non può controllare tutto, non so con quanta consapevolezza ma comunque con maggiore serenità di noi. Ho sempre cercato anche di tenermi informata sulla situazione in Africa. Non posso non sentirmi coinvolta e sono preoccupata per ciò che può accadere perché non potrebbero far fronte alla situazione come abbiamo fatto noi. Tuttavia, le attività di prevenzione e sensibilizzazione che sono state messe in moto fin da subito mi fanno ben sperare. Mi sembrano combattivi e motivati ad affrontare quel che sarà».