Espoir significa speranza
La storia di Espoir ci arriva dall’ospedale pediatrico di Bangui e ci viene raccontata da Vittoria Montecchiani, JPO in pediatria.

Espoir è il suo nome e significa “speranza”. È davvero un nome bellissimo.
Non c’è nessuno in ospedale che non lo conosca per nome, che non lo saluti.
Espoir in questo nostro grande ospedale di Bangui è praticamente a casa sua, lui è stato infatti abbandonato qui dalla sua famiglia, il giorno in cui, probabilmente, si è resa conto di non potercela fare a crescerlo, o forse le motivazioni erano altre, chissà, nessuno lo sa ormai, nessuno lo ricorda. Non è neanche così importante, Espoir è Espoir, tutti gli vogliono bene e gli battono il pugno quando passeggia per l’ospedale.
Anche io l’ho conosciuto così, come il ragazzino sempre sorridente che fa visita a tutti gli altri bambini ricoverati, il ragazzino magro come un fuscello, con quelle gambette esili che sembrano spezzarsi, ma che ha invece una forza sbalorditiva e sa perfettamente gestire la sua terapia insulinica e va da solo a prendere i suoi pasti per una nutrizione corretta. Per lui i ricoveri sono ormai una abitudine, una bella abitudine, perché adora l’ospedale e ne conosce il ritmo incessante, i rumori, il caos, le regole, i suoi “abitanti”, dai cleaners alle infermiere ai medici locali ed anche a quelli “monjou”, i bianchi. “Salutami il Dott. Monjou che se ne è andato, Espoir manda i suoi saluti a tutti”.
Circa due settimane fa però vagabondava triste e silenzioso tra i reparti, voleva salutare tutti di persona, lo sguardo triste di chi deve lasciare un parco giochi, di chi “è tardi, bisogna andare a letto”. Alla mia domanda risponde un po’ in sango, un po’ in francese, che non vuole andarsene, che non vuole tornare nell’orfanotrofio con tutte quelle ragazze. Penso tra me che forse è l’unico bambino al mondo che non vuole uscire da un ospedale. Eppure provo a capire le sue ragioni di ragazzino di nove anni: l’orfanotrofio ha regole, una scuola, disciplina e tante troppe bambine rumorose che inventano coreografie di balletti e altre sciocche “robe da femmine”.
Quell’orfanotrofio, delle suore di Madre Teresa, io l’ho visto. Posso dire che è un luogo veramente bello, pulito, un giardino pieno di alberi altissimi illuminati dai fiori più colorati, con queste suore indiane che parlano francese ed inglese coi bambini e si prendono in carico l’istruzione dei piccoli, per poter dar loro l’autonomia e il diritto di scegliere un lavoro degno.
Vi racconterei di più di quel luogo, di perché praticamente vi siano solo bambine, ma dovrei addentrarmi in una difficile descrizione di un Paese complesso, in cui purtroppo ancora gli esseri umani, soprattutto di sesso femminile, vengono abbandonati con l’accusa di stregoneria, di un Paese in cui le superstizioni e l’ignoranza hanno ancora un peso troppo grande. Perchè la guerra e la povertà hanno anche questi come effetti collaterali: impediscono l’istruzione, spingono alla paura.
Guardo Espoir e vedo l’espressione disperata del bambino che non vuole andare a scuola.
Quante sensazioni staranno passando nel cuoricino forte di questo ragazzino diabetico e malnutrito, cresciuto così in fretta?
“Fuori Espoir, in ospedale rimangono i bambini malati, tu devi uscire e devi andare a scuola, anche se non ti piace, perché qui al CHUPB devi tornare da grande per lavorare”.
Mi guarda coi suoi immensi occhi senza troppa convinzione; già so che tornerà purtroppo molte altre volte prima di diventare adulto, ma glielo auguro davvero: di tornare qui, da lavoratore, parte dell’immensa squadra del CHUPB, per restarci tutto il tempo che vuole, finalmente non dalla parte di malati.
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