L’essenziale della cura
La testimonianza di Adriano La Vecchia, primo Junior Project Officer in Pediatria a svolgere il servizio a Jinka, in South Omo, nel Sud dell’Etiopia.
«È stato molto intenso vivere e lavorare in un posto tanto periferico come Jinka. Essere soli espone in modo totale alla cultura locale e permette di entrare in contatto profondo con i colleghi. È stata un’opportunità che mi ha davvero aperto la mente. Sicuramente, l’aspetto più duro per me è stato il contatto, anche in senso fisico, con l’esperienza della morte, perché mi sono trovato, frequentemente, a ventilare e a fare il massaggio cardiaco a neonati e bambini. Se ne vedono morire tanti che da noi si salverebbero; ma anche a Jinka, continuando il nostro supporto, si potrebbero ottenere miglioramenti notevoli, nonostante le minori risorse a disposizione. “L’esposizione” alla morte mi ha, comunque, insegnato ad avere un occhio clinico più attento, a valutare meglio l’effettiva gravità di un paziente e anche a ridimensionare ciò che vediamo nel nostro lavoro in Italia.
In un contesto così particolare e differente dal nostro, mi sono misurato, inevitabilmente, con diversità culturali e sociali che si riflettono anche sul lavoro. I medici strutturati etiopi sono preparati e ben disposti a collaborare e ad avere un confronto; alcuni infermieri, invece, sono un po’ meno flessibili ad accogliere i cambiamenti e meno attenti nei confronti degli ammalati. È stata una sfida anche trattare pazienti di gruppi etnici così particolari e diversi tra loro. Il ricorso alle cure tradizionali è frequente e questo comporta gravi problematiche per la salute di bambini e adulti. Inoltre, bisogna fare i conti con una sanità pubblica che è quasi totalmente a carico del paziente (esentati solo i neonati fino al primo mese di vita e i bambini malnutriti) e, spesso, le famiglie non hanno la possibilità di pagare, così devono rinunciare alle cure. Da medico abituato ad una realtà differente, si impara ad essere più oculato sui trattamenti davvero essenziali e si cerca di trovare con la famiglia tutti i modi possibili perché possano farsi carico del costo delle cure.
Il lavoro del Cuamm si vede, è tangibile ed è anche riconosciuto e stimato dal personale locale e da chi gestisce l’ospedale. Una presenza e un impegno che continuano da anni. Attualmente è in corso il progetto “I primi 1000 giorni. Garantire servizi sanitari di qualità a mamme e bambini della South Omo Zone”, finanziato dall’Agenzia Italiana per la cooperazione allo sviluppo e realizzato in partenariato con Amref e con la collaborazione di Centro per la Salute del Bambini (CSB)».
Quello che non si vede…
«Da questa missione ho appreso l’essenzialità della cura, che a volte da noi si perde. Ci sono azioni basilari e imprescindibili che vanno valutate sempre e comunque per stabilire la criticità di un paziente. Allo stesso tempo, credo di avere trasmesso, soprattutto ai general practitioners (medici generici), un’attitudine più responsabile al lavoro e un pensiero più critico. Un esempio concreto è stata la gestione della Picu, la terapia intensiva pediatrica, su cui ci siamo sempre confrontati apertamente, prendendo insieme le decisioni necessarie.
L’inaugurazione della Picu è stata una grande soddisfazione, un’eccellenza in un contesto come quello di Jinka. Ha solo tre letti, dotati di monitor e ventilazione, a disposizione dei piccoli pazienti che vengono seguiti con cura 24 ore su 24. Siamo riusciti ad ottenere buoni risultati. Tra le tante situazioni accadute e i pazienti incontrati, ricordo in modo vivo Netsi, una bambina di 1-2 anni – lì, spesso, l’età non si sa con precisione – che è stata la prima paziente ricoverata nella Picu. Viveva in una capanna con la mamma e con il papà che da ubriaco ha rovesciato una pentola di acqua bollente colpendo Netsi e ustionandola su buona parte del corpo. Netsi è stata ricoverata quattro settimane: una presenza costante nella nostra quotidianità. Essendo la prima paziente della terapia intensiva e avendo un’ustione importante, è stata l’opportunità anche per i colleghi locali di esercitarsi sulla cura di un paziente così delicato. Inoltre, le operatrici avevano spiegato alla mamma come giocare e interagire con Netsi, dimostrando quanto la stimolazione dei bambini, anche in condizioni di sofferenza e dolore, sia davvero importante. All’interno del progetto “I mille giorni”, infatti, viene data particolare attenzione all’Early Childhood Development, le attività di sviluppo cognitivo, fisico, linguistico, motorio, sociale ed emotivo del bambino nei primi anni di vita. C’è proprio uno spazio dedicato a questo e, ogni tanto, all’esterno le operatrici organizzano la cerimonia del caffè, come da tradizione, per sensibilizzare i genitori sull’importanza del gioco e dell’interazione con i propri bambini, in particolare per il trattamento della malnutrizione. Jinka mi ha mostrato chiaramente com’è la sanità nel mondo. Tendiamo a pensare che la nostra, quella Occidentale, sia la normalità, ma non è così. Noi siamo l’eccezione e Jinka mette di fronte a questo».