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Coronavirus in Uganda: limitare il contagio

In Uganda ci sono 56 letti di terapia intensiva, per tutto il Paese, mentre i casi di pazienti positivi al Coronavirus sono al momento 44. Non tutti hanno bisogno di cure intensive, ma l’eventuale diffusione del virus è un rischio troppo alto da correre per la salute della popolazione che deve fare i conti con un sistema sanitario già molto fragile.

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    Dal 18 marzo, in Uganda sono attive misure di distanziamento sociale a livello nazionale, molto simili a quelle in atto in Italia: vietati i raduni di persone, chiusi i negozi che non vendono generi alimentari e sospese anche le manifestazioni religiose e tutte le forme di trasporto pubblico. Non sempre la popolazione ha preso di buon grado le nuove norme, soprattutto nel caso dei piccoli commercianti che vivono alla giornata e già si trovano in difficoltà economica.

    Nel distretto di Oyam, dove Medici con l’Africa Cuamm lavora, al momento non ci sono casi confermati di covid-19, ma Giovanni Dall’Oglio, medico esperto di Sanità Pubblica, e Mattia Quargnolo, medico specializzando sullo stesso tema, sono al lavoro nell’ospedale di Aber e nei villaggi circostanti per prevenire proprio la diffusione del virus.

    «Nelle comunità rurali – spiega Giovanni Dall’Oglio – non è ancora chiaro quanto sia importante evitare i contatti e rimanere a casa, mettere in atto norme igieniche preventive».

    «Dall’altra parte – racconta Mattia Quargnolo – la gente ricorda molto bene le epidemie di Ebola del passato: associa il contagio a una condanna a morte certa e quindi stiamo lavorando per sensibilizzare sul nuovo virus, ma anche per non diffondere il panico».

    Nell’ospedale di Aber, riferiscono i medici, gli accessi sono calati nelle ultime settimane: un po’ per la paura del virus, un po’ perché la messa al bando dei trasporti condivisi, in territori dove le ambulanze sono rare, rende più difficile per le persone raggiungere la struttura sanitaria.

     

    Rendere sicuri gli ospedali

    Nell’ospedale di Aber e nel centro di salute di Anyeke, Medici con l’Africa Cuamm ha predisposto un’area di triage dove tutti i pazienti vengono esaminati prima di accedere all’ospedale. Per i casi sospetti è previsto l’isolamento e il test per la malaria, in modo che possano accedere all’ospedale solo quando si sono esclusi eventuali rischi di coronavirus. Vengono seguite le linee guida dell’OMS, in linea con le disposizioni del governo ugandese, ed è previsto che i pazienti positivi al covid-19 siano trasferiti all’ospedale regionale di Lira, per impedire che le strutture sanitarie diventino luoghi di contagio e permettere di continuare a portare avanti i servizi di cura per mamme e bambini. Rimane infatti autorizzato il trasporto di donne incinte e neonati nelle strutture sanitarie, con qualsiasi mezzo in caso di emergenza e, anche nel caso della diffusione del virus, la salute materno infantile rimane fondamentale per Medici con l’Africa Cuamm.

    Cosa serve

    Al di là delle procedure già messe in atto, Giovanni Dall’Oglio sottolinea:

    «Quello che manca di più, in ospedale come nei centri di salute periferici, sono le mascherine per il personale sanitario. Non possiamo permettere che medici e infermieri siano esposti al contagio. I prezzi di mascherine e farmaci sono arrivati a costare dieci volte il valore originale e c’è chi si ingegna trasformando gli assorbenti in mascherine: anche il nostro team ha prodotto duemila pezzi in questo modo, per avere una dotazione minima».

    «Lavoriamo con le autorità locali – continua Dall’Oglio – per orientare al meglio la risposta al virus. Per un po’ si è pensato di chiudere il distretto anche ai carri merci che vengono dalla capitale, ma abbiamo spiegato che non è utile. Invece lavoriamo molto per formare il personale nelle strutture periferiche e per spiegare a tutti che il problema maggiore di questo virus sono gli asintomatici: persone che, pur sembrando sane, possono diffondere il virus: per questo è importante insistere per diffondere pratiche di igiene più efficaci».

    L’italia vista dall’Uganda

    Mattia Quargnolo ammette di seguire con molta attenzione le vicende dell’Italia, dove ci sono parenti e colleghi:

    «La mia ragazza e il mio coinquilino lavorano in Malattie Infettive a Bologna, quindi ho visto molto da vicino la drammaticità delle situazioni che si vivono lì. Abbiamo usato i loro racconti per migliorare la situazione di Aber, far capire che qui siamo fortunati ad avere del tempo in più per prepararci. Devo dire che il messaggio è arrivato. Ho pensato di tornare in Italia, ma anche qui c’è bisogno di noi e stiamo riuscendo a fare un importante lavoro di supporto e prevenzione».

    Dello stesso avviso Giovanni Dall’Oglio, che, pur avendo già visto diverse emergenze in Africa, ammette:

    «Quello che sta avvenendo in questo momento nel mondo non ce lo scorderemo più. Noi qui siamo in prima linea, ci rendiamo conto che la nostra presenza è importante per indirizzare le scelte strategiche per una popolazione di 450.000 abitanti solo in questo distretto. Siamo qui, solidi, il nostro team è pronto a dare il massimo. Non ci sono tentennamenti!».

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