Medici con l'Africa Cuamm

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Un’epidemia che fa mancare il fiato

La riflessione di un medico Cuamm, direttamente impegnato in Italia per fronteggiare Covid-19 con uno sguardo all’Africa, alla sua enorme carenza di risorse umane e logistiche.

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    Stefano Rusconi, è infettivologo all’Ospedale Sacco di Milano, dove è stato studiato il genoma del Covid-19. Con Medici con l’Africa Cuamm ha prestato servizio in Tanzania e Uganda. Con lui approfondiamo le caratteristiche di questa epidemia.

     

    Da infettivologo con grande esperienza di epidemie in Italia e in Africa, come definiresti l’emergenza che stiamo vivendo?

    «Quella di Covid-19 è un’epidemia che definirei devastante, senza dubbio e senza voler essere catastrofista. Nel mio percorso professionale e umano non ho mai visto nulla del genere. Si tratta di un’epidemia che davvero fa mancare il fiato al paziente colpito dall’infezione ma anche al personale dedicato, che sia medico, infermiere o operatore sanitario. Il virus si localizza prevalentemente nei polmoni, con i sintomi classici di febbre, tosse, a volte dispnea, o trasformandosi in una polmonite molto severa. Ma essendo una malattia infiammatoria sistemica, può causare delle manifestazioni anche a distanza dal polmone, provocando una vera e propria trombofilia a livello di organi periferici, dal rene, all’encefalo, fino alle estremità. Nei casi più gravi ha creato delle cancrene, in alcuni casi incide proprio sul funzionamento delle piastrine che è di solito ciò che determina l’evento terminale».

     

    Vedi differenze di gestione tra Italia e resto del mondo?

    «L’epidemia è stato un evento che ci ha colto assolutamente di sorpresa. Sapevamo che in Cina c’era questa malattia che causava molte vittime, ma non si pensava che potesse arrivare in Italia, provocando tanti casi di contagio e questi tassi mortalità. Secondo me, la risposta è stata piuttosto efficiente, con le strutture ospedaliere che si sono reinventate, aprendo degli ospedali dedicati, come Schiavonia, da destinare a Covid-19. Altrove sono stati creati proprio dei posti ad hoc in alcuni padiglioni o è stata rivisitata l’architettura esterna di alcuni ospedali per una migliore gestione dei pazienti. A livello ospedaliero la risposta è stata buona. Poi, se si ragiona sul fatto di chiudere prima gli ospedali, i reparti… tutto si può migliorare, ma sfido chiunque a prendere decisioni mentre vieni investito da una valanga umana di persone che stanno molto male e che mettono in crisi le strutture e i medici, da un punto di vista dell’efficienza, ma anche psicologico».

     

    Alla luce di quanto si è verificato nei nostri territorio, quali sono gli scenari che intravedi per l’Africa?

    «La preoccupazione più grande è per le persone che vivono in un sistema sanitario molto fragile, con scarse risorse in termini di strutture e di personale. Se questa pandemia dovesse investire l’Africa sub-Sahariana al pari di come è arrivata in Lombardia, è chiaro che sarebbe un dramma. Il problema non è solo l’assenza di sistemi di ventilazione meccanica, ma anche proprio di semplice recettività ospedaliera. Se pensiamo al San Luke a Wolisso, in Etiopia, i posti ci possono essere, in alcuni luoghi ci sono mezzi e operatori. Ma quante di queste strutture sono presenti in Africa sub-Sahariana? Molto poche. Se penso a un impatto devastante come quello della Lombardia, del Veneto, del Piemonte, nelle bidonville africane il risultato non può essere che devastante. Realtà come il Cuamm devono organizzare degli hub di eccellenza, pur sapendo che queste non potranno coprire tutte le realtà africane più popolate e povere».

     

    Qual approccio suggeriresti in Africa?

    «Penso non sia possibile trasferire i provvedimenti che abbiamo messo in atto a livello di mondo occidentale. Non è possibile il distanziamento sociale in alcune situazioni di sovraffollamento. La risposta potrebbe essere quella di un test capillare per persone che hanno dei sintomi, con un tampone. Non può essere fatto un test sierologico di cui si dibatte l’efficacia anche in paesi ricchi. Per quanto riguarda la terapia, per cui anche per noi c’è un punto di domanda, può essere utile ragionare sui ricoveri in situazioni da medicina da campo, come fatto per Ebola. Intendo strutture ampie che possano ospitare molte persone. Mancando i respiratori, purtroppo, non sarà possibile prendersi cura di tutti coloro che avranno bisogno di assistenza».

     

    Come dobbiamo affrontare la fase 2?

    «È molto difficile dare il consiglio esatto per ogni tipologia di professione. La fase 2 è necessaria perché devono riprendere delle attività lavorative e le famiglie si devono riavvicinare. Occorre stare molto attenti alle situazioni in cui ci può essere una vicinanza sociale in cui le persone suscettibili -incontrando qualcuno che è in fase attiva – possono essere infettate. Non è assolutamente presente un’immunità di gregge. che implica una copertura anticorpale del 90%. quando nella situazione attuale dovremmo essere intorno al 20-25%. Per cui vanno limitate le situazioni di aggregazione come scuola, cinema, teatri, manifestazioni sportive, in cui il distanziamento è difficile. Sappiamo che la mascherina può essere d’aiuto, ma non è la soluzione di tutti i mali se qualcuno è infetto. Le aggregazioni vanno evitate ancora per un po’, almeno in quelle regioni dove il numero di nuove diagnosi dimostra che l’epidemia è ancora attiva».

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