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Coronavirus Un caso in Africa sub-Sahariana

E’ di oggi la conferma del primo caso di Coronavirus in Africa sub-Sahariana. In Nigeria. A portarlo un italiano proveniente da Milano. Il commento di Giovanni Putoto, responsabile della Programmazione e dell’Area scientifica del Cuamm, alla luce dell’esperienza maturata negli anni passati con Ebola.

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    La notizia del primo caso di Coronavirus  in Nigeria, porta necessariamente la riflessione sull’Africa e sull’impegno di Medici con l’Africa Cuamm.

    «Oltre al caso della Nigeria, ci risulta anche un caso sospetto in Sierra Leone, di un cinese che abbiamo trasportato in una delle ambulanze del servizio Nems – spiega Giovanni Putoto, responsabile della Programmazione e dell’Area scientifica del Cuamm -. E’ certo che si arriverà alla pandemia, anche se tecnicamente mancano ancora degli elementi per definirla tale. La cosa però non ci deve terrorizzare. Ci sono state altre malattie che hanno avuto lo stesso andamento. Il fatto che anche i paesi africani comincino ad essere interessati dal Coronavirus ci porta a fare alcune considerazioni. Una di carattere generale: la globalizzazione porta inevitabilmente le persone e le comunità agli scambi, ai viaggi. Sono più di un miliardo le persone che viaggiano in un anno, scambio di cibo, di merci… e, per forza, quello che succede in un paese ha dei riflessi sugli altri. Siamo troppo interconnessi. Se ci deve essere un “prima” deve esserlo per tutti e, tra i tutti, in particolare dobbiamo pensare ai più deboli. Ormai dobbiamo avere ben chiaro che un problema riguarda le nostre società ma anche quelle più lontane: siamo tutti responsabili dei nostri comportamenti. Nel bene e nel male. È una comunità unica che deve imparare a convivere insieme e a solidarizzare soprattutto nei confronti delle popolazioni e delle categorie più vulnerabili, come l’Africa dove i sistemi sanitari sono molto più deboli e non hanno i mezzi e le capacità che hanno i nostri».

     

    Il Cuamm ha alle sue spalle 70 anni di esperienza. Ha gestito situazioni difficili e complicate, l’ultima in ordine temporale, Ebola in Sierra Leone e può muoversi in una direzione già tracciata.

    «I sistemi sanitari di questi paesi sono molto fragili e vanno sostenuti nel tempo, costantemente, a medio-lungo termine, andando a rafforzare le competenze del personale locale, anche a livello decisionale. Lo stiamo già sperimentando in paesi come il Sud Sudan e l’Uganda che confinano con il Congo dove c’è ancora una epidemia di Ebola in corso. L’Uganda ha avuto alcuni casi di Ebola che sono sconfinati. Il Cuamm si è impegnato con le autorità locali trasferendo conoscenze, migliorando la raccolta dati, consolidando la capacità dei laboratori… Altro  esempio,  altra patologia di natura epidemica per il quale in Africa ancora si muore: il Morbillo. In Etiopia, stiamo realizzando un progetto, in cooperazione con la Provincia Autonoma di Trento e la Fondazione Bruno Koessler, per migliorare le capacità di sorveglianza dei locali. Più il sistema è capace di identificare, in tempo, i primi casi più è in grado di isolarli e gestirli e contenere l’epidemia e mitigarla. Lo stesso vale per il Coronavirus».

     

    I nostri sistemi sanitari sono all’avanguardia ed efficienti. Sono in grado di gestire e contenere un’epidemia come questa e, allo stesso tempo, svolgere il “lavoro ordinario”. In che modo i sistemi sanitari africani possono fronteggiare una eventuale pandemia?

    «Con l’aiuto dell’Oms è già stata stilata una lista dei paesi africani prioritari e più a rischio, perché ci sono maggiori scambi di persone da e per la Cina. I paesi, quindi, si stanno attrezzando. Stanno predisponendo degli hub negli aeroporti principali, per esempio. La grande sfida è però quella di avere dei mezzi diagnostici, quello che qui chiamiamo tampone, per diagnosticare se una persona è portatrice o meno del virus. Io sono molto fiducioso, perché si sta lavorando alacremente, per trovare dei mezzi diagnostici veloci, rapidi e facili da produrre e da utilizzare, in modo da rendere l’individuazione dei casi più agile possibile, anche in Africa. L’altro punto difficile, ma non impossibile da realizzare, è quello dell’isolamento, come abbiamo fatto con Ebola. Sapendolo per tempo, siamo riusciti a creare delle strutture che hanno consentito di isolare dei pazienti sospetti che poi venivano testati».

     

    Qui i soggetti più a rischio sono gli anziani con altre patologie. In Africa si può intuire l’impatto che una eventuale diffusione del Coronavirus avrà sulla popolazione? Quali fasce colpirà?

    «Non conosciamo bene questa malattia. Non sappiamo quale specie animale ce l’abbia trasmessa, non sappiamo di preciso i tempi di incubazione e soprattutto non sappiamo se i pazienti a-sintomatici (i portatori sani) sono contagiosi e come. Sappiamo però che ha una letalità molto bassa, sotto il 3%, rispetto a Ebola che ha una letalità tra il 30 e il 60%, per esempio. Sappiamo che qui da noi i soggetti più a rischio sono gli anziani, con altre patologie, come l’influenza stagionale, ed è probabile che anche in Africa soggetti più a rischio siano quelli che presentano altre patologie, per esempio i tubercolotici o i malati di Ncd’s. Anche il fatto che si sia sviluppato in una stagione “fredda”, un po’ come l’influenza stagionale, potrebbe significare che in un clima caldo il virus si diffonda meno. Ma non abbiamo evidenze in merito. L’unica cosa da fare è di mantenere un po’ di equilibrio e buon senso, con tutte le precauzioni del caso, magari abbassando un po’ i toni ed evitando polemiche inutili».

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