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Fare comunità anche in ospedale

La testimonianza di Valeria Filippi, Junior Project Officer in Malattie infettive tropicali, rientrata da Wolisso, in Etiopia.

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    «Ho vissuto un’esperienza complessivamente positiva. Il primo impatto è stato intenso: sono entrata in un mondo nuovo, dove occorre imparare il modo di lavorare dei colleghi locali. All’ospedale di Wolisso ho scoperto una medicina molto più ampia rispetto a quella a cui ero abituata, un approccio non multi-specialistico come il nostro, ma a 360 gradi. Esistono tanti altri aspetti, che portano a porsi domande, anche su temi umanitari, come decidere se prescrivere un esame oppure no, sapendo che le spese mediche pesano sulla famiglia. Considerare, ad esempio, un trasferimento all’ospedale della capitale, Addis Abeba, non sempre è sostenibile economicamente; perciò, ogni scelta va valutata e contestualizzata.

    Vivendo nella guest house del Cuamm, ho avuto la possibilità di conoscere tanti professionisti, impegnati a sostenere la complessa struttura organizzativa dell’ospedale, necessaria per permettere il singolo atto tecnico del lavoro medico. È stato interessante comprendere le infinite sfide che sono dietro l’organizzazione di un ospedale in un Paese a risorse limitate».

    Quello che non si vede…

    «Mi ha colpito come i pazienti affrontassero la malattia e la morte. Spesso, si curano con pochissimi strumenti a disposizione. E la morte è considerata parte della vita: di fronte alla perdita di un caro, i familiari hanno sempre mostrato gratitudine nei confronti del medico che aveva dato il massimo. Inoltre, ho notato come la malattia venga vissuta in condivisione: le stanze d’ospedale con tanti pazienti e i loro visitatori creano comunità. Ad esempio, nel reparto di Medicina, la stanza più grande ospitava undici letti e per ogni ammalato i parenti erano quasi sempre presenti. Durante i controlli, facevamo uscire tutti, ma comunque alcuni si affacciavano alle finestre per partecipare. In questo senso, nasce una comunità. E la solidarietà è magica!

    Imparare l’amarico, la lingua locale, è quasi impossibile per un Junior Project Officer, sul campo soltanto per sei mesi. Poi, a Wolisso i pazienti parlano anche l’oromifa, il dialetto del popolo Oromo. La confidenza con loro, purtroppo, è difficile da raggiungere se si è costretti ad avere sempre un mediatore. Con i colleghi, invece, tutto è stato più semplice, perché si comunicava in inglese. È stato arricchente cooperare con il personale locale, uno scambio continuo. Per introdurre qualche novità occorre porsi in punta di piedi, senza urtare la loro sensibilità, ma piano piano, tra lezioni e condivisione quotidiana, si ottengono buoni risultati.

    Talvolta, si approfittava del cleaning day (di seguito, una foto), per fare formazione al personale, un momento arricchente anche per me. Abbiamo approfondito argomenti specifici: dalla neonatologia alle malattie infettive, molto utili perché, avendo una medicina poco specialistica, i medici locali nei turni si trovano ad affrontare situazioni differenti: un parto di una mamma a rischio, uno scompenso cardiaco di un anziano, una rianimazione neonatale. Dedicare piccoli momenti al ripasso di questi temi è importante, ce ne vorrebbero ancora di più, mirati e strutturati. Perché la formazione è alla base della loro indipendenza, per cui è un tema fondamentale!».

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