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L’Africa ha voglia di crescere

La riflessione di Elda De Vita, specializzanda in Malattie infettive tropicali all’Università di Bari, tornata da Aber, in Uganda, come Junior Project Officer.

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    «Sono stati sei mesi intensi, che ho vissuto più positivamente di come immaginassi. Aber è una realtà rurale in cui è possibile cogliere il significato dell’impegno come medico. Dipende dal carattere di ognuno, talvolta, ci si può sentire soli, ma su di me il periodo sul campo ha prodotto un effetto terapeutico e di concentrazione sul lavoro.

    Gli strumenti sono pochi, per questo occorre pensare al risvolto sociale delle scelte che si prendono. Non si tratta soltanto di prescrivere un farmaco o una terapia, ma di capire se il paziente possa sostenere una determinata spesa. Ciò che il medico decide ha un impatto non solo sulla salute, ma anche sullo stato economico di quella mamma, sulla gestione familiare, ad esempio.

    Dopo il primo mese e mezzo trascorso in reparto, ho svolto attività di ricerca ad Aber, motivo per cui sono partita, grazie ad un progetto promosso e organizzato dall’Università degli Studi di Bari. Per me, specializzanda in Malattie infettive tropicali, è stata un’esperienza estremamente formativa. In Africa, ancor più che in Italia, ci si rende conto di come dalle malattie infettive dipenda davvero la salute globale. Queste patologie sono connesse alla povertà, all’emarginazione; dove ci sono malaria, tubercolosi, c’è anche disagio sociale, culturale, percepibile nel nostro Paese, ma in Uganda o in Africa è molto più esplicito. Ho imparato ad affrontare la vita con un po’ più di calma. La “furia occidentale”, soprattutto in ospedale, del prescrivere, dell’orientamento al risultato, in Africa non c’è».

    Quello che non si vede…

    «È la totale dedizione dei colleghi ugandesi, dai medici agli infermieri, nello studio e nella ricerca: si fa il possibile per stare al passo con le linee guida internazionali, per svilupparsi con i mezzi a disposizione. Quando sono tornata a casa tanti amici pensavano che avessi fatto il medico in una capanna. Invece, ho dovuto spiegare che sono stata in un compound ospedaliero dove esiste la radiologia e si trovano tecnici preparati che, anche se non sono medici specialisti, sono comunque esperti, perciò efficaci. Il confronto sui casi clinici, la considerazione del parere di ognuno, non sono mai mancati. C’è voglia di crescere e di essere lontani dalla percezione dell’Africa che abbiamo qui».

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