Medici con l'Africa Cuamm

la salute è un diritto,
battersi per il suo rispetto
è un dovere
DONA ORA Il tuo aiuto può fare la differenza

A Wolisso come in famiglia

Nissi Belcore, ostetrica di 25 anni, originaria di Avellino, ha appena concluso un periodo di formazione a Wolisso, in Etiopia, grazie al sostegno della Fondazione Rachelina Ambrosini.

Condividi con i tuoi amici:

    «La prima notte a Wolisso è stata d’impatto: un mondo nuovo e lontano, opposto a quello al quale ero abituata. Quando mi sono trovata in ospedale, invece, ho pensato che da lì non me ne sarei voluta più andare. È stato qualcosa di indescrivibile. Non avrei mai pensato di soffrire il mal d’Africa, iniziato già nel momento in cui ho salutato gli amici etiopi, con la consapevolezza che, difficilmente, ci rincontreremo. Un mese è trascorso troppo in fretta!

    Appena arrivata in ospedale, quando il caposala mi ha presentato lo staff, mi sono sentita subito a casa. Incrociando lo sguardo di medici, infermiere, ostetriche come me, ho percepito vicinanza e condivisione degli stessi valori. Talvolta, mi fermavo al lavoro qualche ora in più, senza neppure rendermene conto. Ho cercato di apprendere il più possibile, senza imporre il mio metodo, per conoscere un contesto che, soltanto attraverso la prospettiva dei colleghi locali, avrei potuto interiorizzare. Parlavamo in lingua inglese, ma mi sembrava fosse italiano, da tanto che c’era affinità tra noi».

    Quello che non si vede…

    «Mi è stata offerta la possibilità dalla Fondazione Rachelina Ambrosini e dal Cuamm di fare esperienza, avendo accanto professionisti esperti che mi hanno dato sicurezza. “Siamo qua con te”, mi dicevano quando dovevo approcciarmi alle novità. I sanitari non avevano un occhio di riguardo soltanto per me che provenivo da fuori, ma per tutti i tirocinanti. L’ospedale di Wolisso, essendo anche un college, forma molti studenti.

    Una volta al mese, a rotazione, i dipendenti lavorano per una settimana di notte. È stato proposto anche a me e, volendo vivere appieno questo mese, ho accettato senza esitazione. È stata la settimana più intensa della mia vita! Nelle 12 ore insieme con i colleghi ogni notte si è creato un rapporto come in famiglia.

    Ricordo di avere seguito, assieme al mio collega Abdi, una mamma che ha partorito una bambina di tre chili e 800 grammi, in salute. Dopo poco, però, abbiamo temuto che la paziente avesse un accretismo placentare. Così, abbiamo allertato il ginecologo che ha provveduto con un secondamento manuale. Ho preso la mano della giovane donna, che mi guardava e mi chiedeva, preoccupata, come stesse la sua figlioletta. Pur rischiando la vita, il suo pensiero era diretto alla neonata. Con la morte negli occhi, si preoccupava non di perdere la sua vita, ma della salute della figlia. La mamma ce l’ha fatta e l’indomani sono andata a trovarla. Aveva la bimba in braccio e mi ripeteva con tenerezza: “Thanks, thanks!”.

    Non sono mancati momenti di socialità al di fuori dell’ospedale: ho partecipato al rito del caffè, ai balli tradizionali (con scarso successo!), all’ora di sport quotidiana. Occasioni di scambio anche con Junior Project Officer in Pediatria, specializzandi del Sism (Segretariato italiano studenti in Medicina), volontari in Servizio Civile Universale.

    Al mio ritorno, i miei amici si sono mobilitati con una raccolta fondi. È stato bello “continuare il viaggio” in Italia. Il mio compagno studia Medicina. In futuro mi piacerebbe fare una missione insieme!».