Unirsi in un unico abbraccio
Fabio Stevenazzi, appena si abbatte sulla Lombardia l’epidemia di Covid-19 sente di dover fare la sua parte all’Ospedale di Busto Arsizio. Con il Cuamm è stato in Etiopia e Tanzania. Tante esperienze, uno stesso minimo comune denominatore: aiutare il prossimo.
Medici, ricercatori, ma anche operai, cassiere, impiegate alle pulizie e semplici volontari che si sono spesi senza risparmiarsi contro il coronavirus. Un’Italia solidale che ci ha riservato una felice sorpresa: tra i 57 nuovi Cavalieri della Repubblica nominati ieri dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella c’è anche don Fabio Stevenazzi, che ha prestato servizio in Africa con noi in Etiopia e Tanzania. Sapeva con certezza di voler essere d’aiuto al prossimo, ai più vulnerabili. Fabio Stevenazzi, all’inizio diventa medico, esercita dal 1997 per alcuni anni, poi sceglie un’altra strada e diventa sacerdote nel 2014. Da settembre 2019, è sacerdote a Gallarate ma appena si abbatte sulla Lombardia l’epidemia di Covid-19 sente di dover fare la sua parte all’Ospedale di Busto Arsizio. Questo il racconto della sua esperienza.
Cosa ti ha portato a riprendere la tua vecchia professione in questi mesi?
«Dal pomeriggio del 23 febbraio tutte le messe comunitarie sono state sospese e non potevo nemmeno fare visita ai malati che mi erano stati affidati come sacerdote. Mi domandavo continuamente: “cosa posso fare io?”. Così ho deciso di chiedere al nostro parroco di poter riprendere servizio come medico a Codogno. Inizialmente ho ricevuto una risposta negativa per la speranza che potessi tornare a celebrare la Pasqua. Poi, è stata proclamata la “zona rossa”, l’Ospedale di Gallarate cercava medici. Così mi sono riproposto, ricevendo questa volta un sì».
Come è stata la “relazione” con i pazienti Covid?
«La gravità della situazione si è ridotta rispetto all’inizio e questo è visibile anche nei volti dei pazienti. Inizialmente leggevo nei loro occhi solo grande paura e incertezza. Per i giovani la tensione era lenita un po’ dal contatto virtuale con il mondo esterno tramite il telefono. Ma per gli anziani era diverso perché le giornate erano scandite solamente dai rumori e dalle luci artificiali di un ambiente non certo rassicurante come quello della terapia sub-intensiva. Nemmeno noi potevamo confortare i malati, avvolti nelle tute, tutti uguali, con gli occhi che emergevano a malapena dalle visiere protettive. Solo a Pasqua ho indossato la stola da sacerdote sopra il camice e ho salutato tutti i malati dall’oblò della porta di ogni stanza, consegnando tramite gli infermieri immagini del Risorto per dare conforto».
Come sei prete nel fare il medico?
«Fare il prete così come il medico è uno stato di vita, una condizione specifica di appartenenza.Mi ha stupito essere identificato da alcuni colleghi, anche non credenti, come un riferimento, degno di ricevere confidenze molto personali che custodisco con gratitudine. Nelle scelte cliniche che ci siamo trovati a fare, di bioetica, sono stato interpellato per arrivare ad un giudizio condiviso, anche per capire quando si giungeva all’estrema frontiera della cura. Sono stato sollecitato più di altri, forse per il mio status di prete, a dare conforto alle famiglie di pazienti che non ce l’hanno fatta».
Riconosci un po’ di Africa nel tuo lavoro qui?
«La riconosco nel voler essere utile a 360 gradi a tutti gli esseri umani senza distinzione alcuna. Se una persona esercita la partica medica come gesto di solidarietà, di vicinanza ai più bisognosi, non è possibile fare distinzione di nazionalità, di censo. Il minimo comune denominatore è adoperarsi per esserci e fare la propria parte. Sia nella mia esperienza in Africa che nell’emergenza in Italia inoltre, c’è stato un ampio margine di imprevedibilità e rischio. Se ci si fida delle proprie conoscenze ma anche della struttura e dell’equipe con la quale si collabora, allora si stemperano anche eccessivi timori per il fatto che non tutto può essere preventivato. Così come mi sono sentito sereno e sicuro di partire con il Cuamm, così ho lavorato con fiducia nella struttura ospedaliera in Italia pur essendo nell’occhio del ciclone».
Nella gestione dell’emergenza hai ritrovato qualcosa del lavoro del Cuamm in Africa?
«Ho riconosciuto una grande disponibilità alla collaborazione e al confronto per curare questi malati, lo stesso spirito che avevo trovato nelle mie esperienze in Tanzania ed Etiopia con il Cuamm. Nella pratica quotidiana, ho sempre respirato un desiderio di “travasare” gli uni agli altri le proprie competenze. È questo lo spirito che permette di valorizzarsi a vicenda e considerare come importante il contributo di ciascuno. Poi, la consapevolezza del limite. Questa emergenza è stata decisamente “un’esperienza limite”, che in Africa si tocca con mano più frequentemente. Ci deve essere empatia ma anche il giusto distacco che consente di non essere schiacciati emotivamente da ciò che accade. Credo che un medico deve capire i pazienti ma deve anche cercare di non portarsi dietro tutto il carico emotivo il turno dopo, il minuto dopo».
Cosa significa per te la pratica del “gesto minimo”?
«Ho tante possibilità di vedere il “gesto minimo” nella mia duplice veste di medico e prete, anche in questa emergenza. Innanzitutto, cercare di essere vicino e di conforto ai malati, per quanto possibile. Quando non si poteva fare più nulla per il paziente, si cercava di rassicurare i parenti dicendo che avremmo alleviato il più possibile la sofferenza del loro caro. Allo stesso modo, anche in contesti più fragili, si cerca sempre di garantire dignità e compostezza anche se non significa salvare la vita di una persona».
Perché è importante unirsi in un unico abbraccio?
«In ogni circostanza in cui ci troviamo, in ogni scelta che facciamo ne va della nostra umanità. Pensare di spendersi in un paese, in un sistema sanitario con risorse e possibilità, ma coltivare indifferenza per tutti gli altri è una scelta povera in termini di umanità. Il diritto universale alla salute e il fatto che il Cuamm cerca di difendere questo stesso diritto anche in Africa è fondamentale, è indice della nostra umanità. Come si può avere un’alta qualità della propria umanità se si discrimina tra una persona e l’altra?».
Credi cambierà il tuo ruolo di prete dopo questa esperienza?
«Il rapporto con i malati è sempre stato chiave per me, come medico e come prete. È stato un ritorno al passato e tutta la ricchezza e l’intensità di questa esperienza probabilmente devono ancora sedimentarsi per capire come mi cambierà. Sicuramente desidero cogliere dentro la fatica di questi mesi i segni di un’esperienza positiva».