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Se non ci siete riusciti voi… Il Coronavirus visto dal Sud Sudan

In uno degli Stati più fragili al mondo il Coronavirus si affronta con pochi mezzi e la speranza che l’onda d’urto non impatti in maniera così drammatica. Intervista a Enzo Pisani, medico Cuamm in Sud Sudan.

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    In uno degli Stati più fragili al mondo il Coronavirus si affronta con pochi mezzi e la speranza che l’onda d’urto non impatti in maniera così drammatica. Spaventano l’abbandono delle strutture sanitarie e la rabbia sociale di poveri che diventano sempre più poveri e che il governo non potrà aiutare con alcuna misura di sostegno. Intervista a Enzo Pisani, medico Cuamm in Sud Sudan.

    Come vedi il covid-19 dal Sud Sudan?

    Meno emozione di quella che provate voi, tempo per leggere ce n’è poco, le malattie infettive le conosciamo e quindi come tutti ci aspettiamo la catastrofe anche qui; però è una malattia nuova, inaspettata, che ha fatto balbettare tutta la scienza per mesi e reso ridicole tante previsioni, ed allora ci si attacca anche per noi a delle speranze che in fondo sono irragionevoli. E come se la speranza diventasse lecita, prendendo il posto della scienza che è passata ad essere illecita. Cioè sperare che in Sud Sudan non arrivi con la stessa virulenza, che l’Africa in qualche maniera, abbia qualche fattore protettivo: il caldo? la dispersione della popolazione rurale? la concomitanza di altre malattie (TB, Malaria)? il vaccino BCG? le misure di chiusura degli aeroporti e delle frontiere prese in anticipo? la chiusura ossessiva delle comunità cinesi in Africa? Chi lo sa, è solo speranza… ma la dove la scienza ha fallito per mesi, perché non potrebbe fallire anche ora?

     

    Come lo vede uno che ha attraversato guerre, epidemie, endemie, sofferenza, ma che ha visto tante volte che si può ripartire?

    Si riparte quando ci si ferma, qui non ci si ferma mai. Se ci sarà epidemia, i morti non verranno neanche contati, si sommeranno a quelli della malaria, il sistema sanitario è così fragile che tanta gente non si accorgerà neanche che è arrivata; continuerà probabilmente a temere più una pallottola che un virus, ed in molte zone rurali la cura delle (e la lotta per le) vacche continuerà ad essere la priorità.

     

    Che timori hai per l’Africa?

    Le misure di protezione preventive sono fondamentali, ma aumenteranno la povertà dei tantissimi marginali, di quelli che vivono vendendo qualcosa per strada o preparando te e mandazi o facendo taxi con le motorette, tutte attività ora proibite. Anche se in Sud Sudan la maggior parte della gente fa fatica ancora ad accettarle, i Tea Shop sono tutti aperti, le motorette portano passeggeri ma vanno più veloci per non farsi fermare dai poliziotti.

     

    Cosa ti spaventa di più?

    Se l’epidemia arriva sul serio, le misure preventive più efficaci tipo il lockdown a casa saranno impossibili: qui la casa serve solo per dormirci, in 8-10 in una capanna. L’abbandono delle strutture sanitarie e la ricerca della medicina tradizionale, quello sì che spaventa, insieme alla rabbia sociale dei poveri che diventano sempre più poveri e che il governo non potrà aiutare con alcuna misura di sostegno. Una fase 2 di ripresa non ci sarà mai.

     

    Qual è lì la percezione del pericolo? La gente come si comporta?

    Nella gente comune non c’è assolutamente, è considerata malattia dei bianchi, molti ti ridono in faccia quando gliene parli, un soldato quando l’ho salutato col gomito, mi ha detto “se corona arriva qui gli spariamo e muore all’istante”; e quindi le misure restrittive del Governo sono qualcosa di distante. Se un giorno arrivasse l’epidemia sul serio, sarà difficile convincere la gente che non l’abbiamo portata noi, anche perché in fondo è così: un vescovo, un cooperante, un imprenditore, tutti occidentali, sono questi i primi casi registrati in Africa. Possibile che poi una rabbia violenta esploda contro di noi? Possibile, perché no? Se li abbiamo costretti per anni a morire in mare impedendo anche alle ONG di aiutarli, prevedere delle reazioni violente emozionali è una evenienza da accettare serenamente e con cui convivere.

     

    Sappiamo che le epidemie si portano dietro il triste peso delle “morti indirette”, puoi spiegarlo in pratica anche con qualche numero?

    Lo scorso anno solo nelle 5 contee che costituiscono il nostro lotto abbiamo ricoverato 20.000 malati in ospedale, effettuato oltre 650.000 consultazioni, vaccinato con tutte le dosi 27.000 bambini, assistito più di 10.000 parti;  se l’epidemia arriva sul serio e la gente si spaventa e diserta le strutture sanitarie, facendo ricorso a magicians e curatori locali o privati for profit… beh è facile immaginare quello che succederà e farsi un po’ di conti.

    Come si riorienta il lavoro “ordinario” in Africa con una pandemia in corso?

    Non si riorienta, semplicemente aumenta o raddoppia; stiamo cercando di procurarci presidi protettivi, di fare tanta formazione, di preparare una unità di isolamento e trattamento, ma lontana anni luce dalla potenza tecnica e professionale messa in campo dall’Italia; e se non ci siete riusciti voi a trattare i pazienti, cosa vuoi che facciamo noi?Qui la speranza è di avere abbastanza materiale per proteggere il nostro staff ed un po’ di ossigeno per i malati più gravi, lo stesso ossigeno che in Italia si riserva ai contagiati domiciliari, cioè quelli con sintomi lievi, quelli che non vengono neanche accettati in ospedale. Quindi dobbiamo limitare target e speranze, se l’epidemia arrivasse sul serio, i nostri saranno semplicemente: fare morire i malati cristianamente in un letto, con meno familiari accanto (isolati sarà impossibile) e sperando di individuarli presto, prima che ne infettino troppi; riuscire a seppellire in maniera corretta quelli che muoiono; proteggere i nostri operatori sanitari, se mai continueranno a venire a lavorare; evitare il collasso degli ospedali per gli altri servizi.

    Altro che ti senti di aggiungere… Solo un pudico silenzio.