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Reagire alle difficoltà e trasformarle in occasioni

Giulia Marini, giovane infettivologa, in prima linea a fronteggiare l’emergenza Covid-19 all’Ospedale di Reggio Emilia, ci racconta di un’Africa che insegna la capacità di reagire alle difficoltà, trasformandole in occasioni.

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    È il primo giorno di riposo dopo giorni di turni estenuanti per Giulia Marini, giovane infettivologa impegnata in prima linea a fronteggiare l’emergenza Covid-19 all’Ospedale di Reggio Emilia: «Inizialmente i protocolli per la gestione dei pazienti cambiavano continuamente, ma ora sono state definite le linee guida e abbiamo preso il ritmo, siamo più organizzati e lavoriamo meglio. I turni sono sempre molto lunghi ma la situazione in ospedale sta migliorando, entrano meno pazienti positivi e ci sono meno decessi».

    Sono parole che portano un po’ di speranza e danno una spinta a continuare con determinazione la battaglia contro il virus. Tuttavia, Giulia, come molti altri medici ed operatori sanitari, deve affrontare ogni giorno grandi sfide. Prima fra tutte la valutazione di quali pazienti possano accedere alla terapia intensiva, in base ai posti e alle risorse disponibili. E in questo contesto di emergenza per Giulia è impossibile non pensare all’Africa, alla sua esperienza come tirocinante all’Ospedale di Wolisso, in Etiopia, dove per la prima volta si è confrontata con un sistema sanitario fragile che convive quotidianamente con la mancanza di risorse. «Quello che ho imparato in Africa mi è servito per affrontare quello che stiamo vivendo. Ciò che qui dai per scontato, lì manca. Non c’è la possibilità di fare trasfusioni e ti trovi spesso a dover valutare chi curare. Così “impari” a farlo. Quando ora ci chiediamo chi mandare in rianimazione, probabilmente riesco a decidere con più prontezza dei miei colleghi perché ho già vissuto una situazione simile».

    Un’Africa che insegna “l’arte di arrangiarsi”, la capacità di reagire alle difficoltà, trasformandole in occasioni. Un’Africa dove si impara grazie al fare, giorno dopo giorno, reinventandosi continuamente. Fare quello che è possibile e sapersi fermare quando non si può fare di più.

    «In reparto abbiamo pazienti che prima avremmo mandato direttamente in rianimazione ma, non essendoci posti, ora sono ventilati con i caschi CPAP – continua Giulia -. La cosa positiva è che questi pazienti migliorano senza essere intubati ed evitiamo loro una procedura molto invasiva. Come in Africa, lo abbiamo scoperto dovendo farlo per necessità, anche se inizialmente non ci sembrava giusto».

    Fra gli aspetti più difficili c’è la solitudine a cui ti costringe questo virus e che malati, operatori sanitari e familiari vivono profondamente: «Proprio la comunicazione con quest’ultimi, che può essere solo telefonica, è l’aspetto umanamente più pesante. Dover comunicare a distanza la perdita di un parente è davvero triste. Manca la vicinanza fisica, il contatto, l’empatia che ci lega l’un l’altro e dà un po’ di conforto. Fortunatamente, siamo stati affiancati dal team delle Cure Palliative che, grazie alla loro esperienza di accompagnamento ai pazienti terminali, sono una risorsa fondamentale nella relazione con i familiari e nel sostegno ai malati che si sentono spaventati e soli».

    Continua Giulia: «Facciamo il nostro dovere come medici. Il carico di lavoro è maggiore, i turni più lunghi, ma è il nostro lavoro. In queste settimane, ci ringraziano tutti continuamente. Probabilmente quest’emergenza sta facendo capire quanto siamo fortunati ad avere un sistema sanitario come quello italiano, grazie al quale tutti possono accedere all’assistenza e alle cure. Spero che questa consapevolezza rimanga anche dopo, quando, passata la fase di emergenza, torneremo a dedicarci ai nostri pazienti come sempre».

    Ci vorrà tempo e probabilmente “il dopo” sarà diverso; ma, anche in una nuova “normalità”, un punto fermo rimane: i nostri medici continueranno a fare il loro lavoro, prendendosi cura delle persone con professionalità e passione.

     

     

     

     

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