Medici con l'Africa Cuamm

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Non uguale, eppure sì

Editoriale di don Fabio Stevenazzi, sacerdote e medico, volontario con Medici con l’Africa Cuamm a Tosamaganga in Tanzania

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    Provare a fare un paragone fra una “Terapia Subintensiva Covid” italiana ed una “Intensive Care Unit” tanzana può sembrare un vero azzardo: a parte la finalità sanitaria e il nome, altisonante per entrambe le realtà, poco altro parrebbe accomunarle… e non solo agli occhi di un profano. Chi ha la singolare ventura di lavorare in un reparto dedicato al Covid in Italia, può raccontare quale complessa e rigida liturgia occorra onorare, prima di poter avvicinare il malato confinato nella sua bolla di contenimento biologico: come si entri con prudenza nella “zona grigia”, anticamera in cui sono disponibili tutti i presidi di protezione individuale, già muniti di mascherina FFP2; in questo ambiente solitamente angusto e saturo di vapori disinfettanti s’indossino, nel rigoroso ordine prestabilito, anzitutto un primo paio di guanti, poi i soprascarpe, gli occhiali protettivi, la retìna per i capelli, la tuta integrale e l’elmetto con la visiera trasparente; poi si calzi un secondo paio di guanti in modo che si sovrapponga ai polsini della tuta e lo si raccordi ad essa con del nastro adesivo; infine si varchi la seconda porta che dà accesso alla “zona infetta”, dotata però di ogni genere di apparato biometrico e diagnostico di base, di ogni presidio utile a supportare la ventilazione spontanea del paziente, nonché di ossigeno puro erogabile anche ad alto flusso. Analoga procedura sia seguita fedelmente a ritroso, per tornare nella cosiddetta “zona bianca”, a minor rischio d’infezione, con la sola variante che ogni singolo indumento sia smaltito nell’apposito contenitore destinato all’inceneritore, oppure immerso a riposare nella Clorina per una mezza giornata. Quasi tutto “usa e getta”, quasi tutto dal costo non proprio irrisorio… ma non manca nulla né per curare i pazienti, né per proteggere gli operatori. La Tanzania, invece, impone riti autoprotettivi ben più semplificati e costringe a drastiche limitazioni nelle disponibilità diagnostico-terapeutiche a favore dei malati: un singolo paio di guanti, seppure frequentemente disinfettato, passando a visita da paziente a paziente, lo si cambia solo se rotto; la stessa mascherina s’indossa per tutto il turno di lavoro; l’ossigeno rischia di essere un lusso per pochi e gli alti flussi di gas medicali sono semplicemente impossibili da erogare a chiunque. Cosa mai può accomunare questi due mondi sanitari tanto diversi? Una volta varcata la “zona grigia” italiana o la malmessa e cigolante porta tanzana, attraverso occhiali protettivi e scafandri trasparenti o coi suoi occhi nudi, l’operatore sanitario s’imbatte negli stessi sguardi dei malati, alcuni sgomenti, altri spenti, altri velati dalla patina maligna del pessimismo e della rassegnazione, altri ancora combattivi e pronti a tutto, pur di tornare agli affetti, alla vita. Ad ambo le latitudini, poi, superata la fase iniziale del rapporto fra sanitario e paziente, più o meno “ingessato”, impersonale ed asettico, fatto di domande convenzionali e di risposte telegrafiche, nonostante le mascherine dopo un po’ ci si riconosce, e ci si affeziona. La vicenda dell’uno diventa parte integrante dell’altro, perché il tal paziente ha la stessa età di mio padre, la talaltra mi ricorda tanto mia sorella, o mio figlio… e quel paziente là in fondo potrei essere io! Chissà, forse qualcuno, sia paziente che sanitario, potrà sorprendersi a desiderare di pregare per il bene dell’altro, per la sua salute, perché siano alleviate le rispettive pene e ciascuno protetto dai pericoli… di sicuro, comunque, entrambi sperimenteranno di essere dalla stessa parte nel fronteggiare un nemico tanto insidioso, temibile e subdolo, ed entrambi ricercheranno nella qualità dei gesti e degli sguardi, e nel calore delle parole di rassicurazione e gratitudine, quella prossimità e quel contatto fisico che magari non sono realisticamente prudenti e raccomandabili, ma che sono altrettanto essenziali dell’aria perché profumano di fraternità. Ecco: in effetti non c’è maggior distanza immaginabile fra le stanze d’isolamento a pressione negativa dagli infissi satinati dei nostri nosocomi occidentali, ed i cameroni con le zanzariere strappate di un ospedaletto rurale africano, come pure non pare esservi la più tenue possibilità di paragonare la preziosità di un set completo di maschere di Venturi o di un respiratore per praticare la respirazione assistita, con un rotolo di cerotto di tela con cui è possibile raccordare alla perfezione, grazie ad un gocciolatore per flebo tagliato a metà, il grosso beccuccio dell’erogatore di una bombola di ossigeno con l’esile tubetto di una nasaliera. Ma a ben valutare, al netto della disparità dei risultati clinici ottenuti – disparità che c’interpella e che c’inquieta non poco –, ciò che conta davvero, perché resterà scolpito nella memoria di tutti e di ciascuno, è l’esperienza di una gravissima crisi sanitaria che sta colpendo indiscriminatamente l’intera umanità, ma che ci sforziamo di fronteggiare al meglio tutti insieme, senza scordare chi siamo gli uni per gli altri.

     Avvenire, 8 settembre, 2021

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