Medici con l'Africa Cuamm

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Migliaia di stelle

Annalisa Dolcet ha 32 anni. Il suo sogno è diventare medico e si sta specializzando presso la Clinica Chirurgica 1 dell’Università di Padova, diretta dal professor Donato Nitti. Grazie a una collaborazione che Medici con l’Africa Cuamm ha avviato con 18 università in tutta Italia, i giovani specializzandi possono trascorrere un periodo di 6 mesi di formazione teorico-pratica in Africa, inseriti nel progetto Junior Project Officer: un modo per prepararsi per un futuro impegno in cooperazione sanitaria internazionale, ma soprattutto, per affrontare le sfide della salute globale nel proprio paese.

 

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    L’Università di Padova è stata la prima ad aderire all’iniziativa e nel 2008 a firmare un vero e proprio protocollo d’intesa che, ad oggi, ha permesso alle diverse scuole di Specialità (Chirurgia Generale; Ginecologia; Igiene e Medicina Preventiva; Medicina di Comunità; Medicina Interna; Pediatria) di inviare ben 38 giovani specializzandi in diversi ospedali in cui Medici con l’Africa Cuamm opera. In questi anni, da tutta Italia, sono partiti ben 93 specializzandi. Le parole di questa lettera che  Annalisa ha inviato in questi giorni al prof. Nitti trasmettono entusiasmo e tanta voglia di impegnarsi per il bene delle persone più bisognose in Africa.

    Caro prof.

    sono quasi tre mesi che mi trovo in questo pezzo di Uganda tra il Kenya e il Sud Sudan.
    La Karamoja è un altopiano, a mille metri, di savana secca, abitato da un milione e mezzo di persone, con fama di popolo feroce e combattivo, di tribù ed etnie diverse, soprattutto pastori nomadi guerrieri. Non è un posto turistico e pochissimi ugandesi sono stati qui perché, fino a qualche anno fa, era considerato troppo pericoloso a causa delle guerre fratricide per il possesso del bestiame. Il governo ha fatto un programma per il disarmo dei kalashnikov, ma le pistole e le frecce girano ancora. La cultura millenaria non si è piegata tanto facilmente allo sviluppo. Le famiglie sono ancora molto numerose: la poligamia è la norma e ogni donna ha almeno 6-8 figli. Le femmine fanno i lavori domestici e agricoli e il trasporto quotidiano dell’acqua, i bambini si occupano del bestiame già da piccolissimi.
    I villaggi sono a forma di insieme di cerchi delimitati da un intreccio di siepi di spine con al centro il recinto degli animali, perché il bestiame è ancora il fulcro della vita e ogni capo rubato ai rivali significa onore e rispetto.
    La parte “moderna” di Matany è una fila di baracche di lamiera lungo la strada rossa. C’è qualche negozio che vende farina, riso, coca cola, birra di sorgo, detersivo; una scuola, una farmacia, una specie di ristorante, una rivendita di materiale idraulico, un barbiere.
    I cinesi stanno asfaltando un pezzo di strada verso la capitale, che dista dieci ore di jeep, e tutto il resto è mille chilometri di pista rossa piena di buchi.

     

    Un tipico villaggio della Karamoja

    Un tipico villaggio della Karamoja

     

    La natura qui è padrona potente e meravigliosa. I locali che sono andati a scuola hanno un inglese sorprendente. I vecchi invece hanno proprio il queen’s english imparato direttamente dai colonizzatori inglesi ed è una meraviglia starli ad ascoltare. La sera li trovi a guardare la tv, in 50 sotto a un’acacia (sabato guardavano Anaconda) o il calcio inglese, e tifano tutti Arsenal. Oppure giocano a biliardo e regolano i conti appiccandosi fuoco.
    Non sono religiosa, ma l’ospedale è un miracolo in questa terra semideserta. Fondato 35 anni fa da missionari comboniani nel mezzo della guerra civile, l’ospedale è un oasi verde, immerso nella savana, bougainvillae e plumeria.
    Di notte, ogni genere di cuculi e civette, poi il vento porta la musica di una disco. Alle 4 il muezzin; poi i galli e le rane. Ho imparato che i falchi sputano dal cielo pezzi di ossa. Masticati. Un giorno mi ha sfiorato un pezzo di femore grande come la mia mano.

    In ospedale: poveri, ma seri.

    L’amministrazione conta su un tedesco, un olandese e una suora portoghese. Nella missione sono rimaste alcune suore italiane, un prete italiano e uno spagnolo. L’ospedale ha 298 posti letto, il reparto di chirurgia ha circa 70 pazienti e in ambulatorio ne vediamo una trentina ogni pomeriggio.
    C’è una serietà scientifica emozionante. Poveri, ma seri. I miei 5 colleghi ugandesi sono tutti originari della capitale, tranne l’anestesista che è Karimojong, e hanno energie e competenze eccezionali. Hanno contratti di qualche anno e poi dovranno decidere se restare o scegliere tra ospedali governativi scandalosi o i ricchi ospedali privati della capitale. L’anestesista senior invece è qui da trent’anni, parla un po’ di italiano e l’altro giorno mi ha chiesto se Cicciolina è ancora in Parlamento. I pazienti hanno un’immunità e una resistenza pazzesca. Arrivano in ospedale sempre all’ultimo, di solito a piedi, dopo lunghi giorni di cammino o in motorino anche in pieno travaglio.
    In sala sembra che non manchi niente e si lavora con gli stivali. Abbiamo la check list pre e post operatoria. Gli Rx sono digitalizzati, il laboratorio è in grado di fare esami di base, ma sufficienti. I campioni istologici sono inviati in capitale una volta a settimana e la risposta ci arriva via email in circa 7 giorni. Degli americani ci avevano offerto di mandarci una macchina per la TAC, ma hanno rifiutato perché i costi di elettricità e manutenzione per ora sarebbero esagerati (dipende ancora molto dal fotovoltaico).

    Il panorama quotidiano

    Ci sono molti incidenti stradali e violenze domestiche (l’alcol è una vera piaga). Ogni giorno qualcuno si fa incornare o calpestare dalle mucche o mordere dai serpenti. Malaria, diarrea, infezioni respiratorie, AIDS e tubercolosi sono il panorama quotidiano.
    Ogni giorno abbiamo laparotomie per neoplasie, masse e ascessi di ogni misura, colore e puzza. Perforazioni da tifo, cancro anche nei giovani (ovaio e sarcomi soprattutto), ustioni, osteomieliti, piccola chirurgia.
    Il primo paziente bianco che ho visto è una giovane obesa americana che fa la veterinaria di sole capre. Abbiamo operato molte cisti da echinococco epatiche e polmonari. Queste ultime settimane molti traumi addominali e fratture nei bambini perché è stagione di raccolta dei manghi.
    Per i casi ortopedici che non riusciamo a trattare contiamo su un buon ospedale in capitale, ma non sempre il trasporto è possibile. E inviamo anche qualche paziente per radio e chemioterapia. Sono andata in capitale in aereo a portare due pazienti di un incidente. Ieri sono tornata e mi hanno spiegato che tutta la gente del villaggio si è messa a rubare zolle di terra della pista dell’aereo, una volta partito, perché quell’erba, sciolta nell’acqua e data ai tori, permette loro di rafforzarsi e arare meglio.

    Un cielo carico di stelle

    La mattina vado a correre su quella pista. Dove di solito siamo io, un maiale, uno struzzo, un airone e una gravida che cammina. La sera chiacchiero con un olandese informatico e un’antropologa inglese. Non mi manca niente dell’Italia, tranne l’accesso alla cultura e la cioccolata! Qui il cielo ha migliaia di stelle e non le sovrasta, le attraversa; il tempo scorre, non corre; l’aria non si respira, si assapora e il sistema nervoso si sistema e non si innervosisce. Ecco questo è il mio modo di essere e vivere il lavoro qui dove è facile morire, dove piccole cose fanno la differenza; dove non c’è spazio per la noia davanti agli occhi e ai sorrisi delle persone che ho attorno, a cui mi accorgo di dare il meglio di me. È il lavoro più bello del mondo. Se sono qui con tutto questo è anche grazie a lei. Un abbraccio. Ci vediamo ad agosto.

    Annalisa Dolcet

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    Karimojon

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