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Matany, lontano ma non distante

La specializzanda Simonetta Masaro racconta la sua esperienza di giovane medico che non ha avuto paura di inseguire il sogno che l’ha portata l0ntano, in Uganda per 6 mesi. La sua storia è raccontata anche da Mario Calabresi nel libro “Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa”

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    Ho la costante sensazione di aver vissuto i miei trent’anni tutti in quei sei meravigliosi mesi passati a Matany, un villaggio della Karamoja, a Nord-Est dell’Uganda. Indubbiamente il futuro riserva molte altre sorprese ed esperienze, ma di quello che riguarda i miei giorni finora, son certa che è così. Il “dopo” (Matany), di cui tutti mi chiedono di raccontare, è ora, sotto lo stesso cielo di Matany, ma a più di qualche chilometro di lontananza.

    Una lontananza che non è sinonimo di distanza. Ricordo i versi di una canzone di Niccolò Fabi e capisco che l’essere geograficamente separati è solo una condizione fisica, che si può superare e al giorno d’oggi ne abbiamo i mezzi, in Europa come in Africa. Quotidianamente sono in contatto con gli amici e colleghi dell’ospedale St.Kizito di Matany: mi mandano foto di cosa stanno cucinando in quel momento e a me sembra come di accettare l’invito a cena; pazienti che ho conosciuto nell’ultimo periodo di servizio, fermi a letto perché in trazione per una frattura di femore, ora stanno facendo riabilitazione e sorridono accanto a Mark, il caro fisioterapista, felici di muoversi finalmente e poter sedersi fuori, all’ombra di qualche albero, con le proprie stampelle. E poi ancora, l’immagine di sister Sophie, la caposala del reparto di chirurgia, sempre attenta e seria nell’accogliere un nuovo arrivato, sister Lucy che, dopo le vacanze di Natale, trascorse nel suo villaggio d’origine, vicino a Mbale, al confini col Kenya, è tornata più sorridente e rilassata che mai. Dr. Paul e il dr. Sebastiano, il nostro nuovo arrivato, in sala operatoria: soddisfatti, con gli occhi che brillano. Alle loro spalle gli RX di un paziente affetto da osteomielite della tibia… sì, ingrandisco la foto e mi pare di vedere proprio il sequestro osseo che sicuramente avranno tolto in toto: i loro sguardi sono da vittoriosi! È una procedura sempre piuttosto indaginosa. E ancora, potrei non fermarmi più.

    Simonetta Masaro specializzanda a Matany

    Simonetta insieme a Mario Calabresi, il direttore de La Stampa, alla presentazione del libro “Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa” ( Trento, 13 aprile 2015). GUARDA LE IMMAGINI DEGLI ALTRI INCONTRI CON L’AUTORE

    Un filo prezioso

    Un legame che attraversa intanto anche i paesi d’Europa: mani tese verso la Svizzera, a cercare conforto nei momenti di nostalgia in Franz, il chirurgo, mio tutor, che a Matany è stato con la famiglia per quasi due anni, fino a bussare alle porte di Cracovia, in Polonia ed accertarsi che Dana, fisioterapista, stia pianificando un ritorno sotto il sole equatoriale come aveva promesso. Come non proseguire poi con il classico appuntamento del giovedì sera su skype, in diretta con Matany. Angela, amica e compagna d’avventura che si occupa di un progetto sul territorio, che la vede impegnata sul fronte HIV, è rimasta lì un po’ di più, per completare le ricerche stabilite. Ci racconta come procedono le giornate in Karamoja, durante una stagione secca che proprio ieri, nel giorno del suo 29° compleanno, ha regalato un bell’acquazzone inaspettato. Il giovedì sera è pure il momento della preghiera alla Nursing School. Ci colleghiamo a chiacchierare ancora una volta con le studentesse e gli studenti che tanto si son sempre prodigati nelle ore di lavoro, come nel campetto di calcio e pallavolo.

    Quanto affetto ci siamo scambiati e ancora ci lega. Una connessione Simonetta/Trieste che raggiunge Angela e la Scuola Infermieri/Matany, passando a prendere Erika, specializzanda di pediatria impegnata ora al Regina Margherita e che ci attende nella sua casetta torinese, anche lei alle prese con il suo “dopo” che è decisamente un uragano di emozioni. Intrecci di vite, legate ad un filo che ognuno di noi tiene, conserva, custodisce come un qualcosa di talmente prezioso che va immancabilmente oltre il mondo materiale.

    Radici profonde

    È questo il “dopo” di tutti noi che siamo rientrati: mente e cuore sono tanto grandi da poter permettere l’impegno nel quotidiano europeo, ognuno affaccendato nel proprio lavoro, preso da ritmi e responsabilità diversi, ma con un pensiero costante verso l’altro continente, come un albero le cui radici sono profonde e ben curate nella terra d’origine, ma con lunghi rami che si estendono al di là del mare, lungo deserti e savane, tesi nel desiderio di raggiungere ancora un contatto, di respirare ancora quell’aria calda, pulita e viva.

    Chi ci circonda intuisce che c’è un sentire speciale in noi. Lo chiamano il “mal d’Africa”, ma non mi piace accostare il “male” alla parola “Africa”. Mi manca il “bene d’Africa”, piuttosto. Quando parlo dei giorni in Karamoja sorrido con ogni parte del mio corpo; quando mostro una carrellata di foto la gente commenta che non mi ha mai visto così felice come in quegli scatti. Queste sono le reazioni: è un dato di fatto, è una statistica che ha risultati senza far grandi conti.

    Rinascita

    Ritornare è capire che è avvenuta una rinascita. È come venire al mondo una volta ancora, perché proprio quel mondo in cui ci si immerge nuovamente non ha lo stesso sapore, non ha gli stessi colori, non ha quelle dinamiche che pensavamo di conoscere. O forse nemmeno questo è del tutto vero, forse il mondo che conoscevamo e che sapevamo di ritrovare, in realtà non è poi cambiato molto, forse sta correndo ma a una velocità diversa rispetto al vortice di mutamenti che hanno travolto la vita fino a pochi mesi prima, in terra africana. Parlo di quella strana sensazione nell’arrivare in Europa e chiedersi “ma dove sono tutti i bambini?”, o di quando la mattina in reparto si partecipa al meeting clinico e si è circondati da decine di colleghi, un team così numeroso da poter coprire più ospedali ugandesi.

    E ancora: di quando si entra in supermercato e la gente ti scansa col carrello sempre pieno di ogni cosa, più o meno necessaria. Non posso dire che sia uno stile di vita che non riconosco più, il fatto è che non lo sento più parte di me: non ha lo stesso sapore, appunto perché ho gustato e apprezzato un modo diverso di muovermi e affrontare le giornate. Ho visto colori nelle persone che mi hanno sorpreso e piacevolmente abbagliato, tanto che i ricordi della Karamoja sono un arcobaleno di tonalità forti che vanno dal blu notte all’arancione del sole.

    Non voglio rinnegare la prima nascita. Quell’albero grande che sta crescendo, se non avesse buone radici, salde, ben curate e profonde, non potrebbe sviluppare rami solidi, vitali, pieni di energia, volti verso l’Altro. È però un capire che strada voglio percorrere, qual è il mio habitat naturale! Forse a pensarci, è l’unica e la prima vera risposta a una serie di domande che rimangono aperte dopo sei mesi di Africa: è quella percezione di sapere dove volge il mio sguardo, il mio impegno, il mio grande desiderio, quella luce, quel richiamo che si fa sentire nei momenti di sconforto e di difficoltà e quella forza ed entusiasmo che guidano gesti e parole quando gli amici chiedono: «Allora, com’è andata la tua esperienza in Africa? Racconta…». Ecco la risposta: tra fuori o dentro, ho scelto il dentro, parafrasando Fabi ancora una volta, o come mi ricorda Erika di Torino, dopo aver fatto sue le parole di Baricco, la risposta è un grande: Sì, ho scelto di entrare nel mare della vita, di immergermi, di affrontarne quiete e tempeste e di ritornarne viva. Non sarò sola, non lo sono mai. Siamo tanti e siamo uniti. Legati a un filo.

    Simonetta Masaro

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