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Incipit Quello che possiamo imparare in Africa

Un assaggio di lettura tratto dal libro Quello che possiamo imparare in Africa. La salute come bene comune di Don Dante Carraro e Paolo Di Paolo, edito da Laterza.

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    “Giuro di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario.” Giuramento moderno di Ippocrate

    “Andate e curate i malati.” Matteo 10, 5-8 

    All’inizio l’Africa, per me, era soltanto un disegno sulla carta geografica. Più che dall’Africa, forse, ero affascinato dal colore nero.

    Martin Luther King venne assassinato quando avevo dieci anni, e fu di lì a poco – nel corso della prima adolescenza – che cominciai a interrogarmi sul mondo, sulle ingiustizie più palesi, più forti; sul tema dei diritti umani e della discriminazione razziale. Nella prima fase della mia formazione, quella di King è sicuramente una delle figure che più mi ha segnato. Ho letto e riletto i suoi discorsi. Quello più famoso, «I have a dream», l’avrò ascoltato un centinaio di volte: anche quando mi sentivo un po’ depresso, riusciva a scuotermi. Abbinava una tradizione religiosa, di fede cristiana, che era connaturata alla mia famiglia e a me, a un pensiero etico e valoriale, al grande discorso della giustizia sociale. Mi affascinava anche il suo modo di leggere il Vangelo, la sua capacità di interpretarlo in una chiave attuale come un testo in cui ritrovare uno scatto della dignità individuale, soprattutto quando viene umiliata. Mi impressionava la forza della sua solitudine, la sua scommessa sulla fede che diventa una possibilità di vera liberazione, personale e comunitaria.

    La dignità! Come posso dimenticare la sarta di Montgomery, Rosa Parks? Quante volte ho pensato a questo esempio: una donna nera che si rifiuta di spostarsi in fondo a un autobus solo per il colore della sua pelle, e viene arrestata. A chi le chiede dove ha trovato la forza, risponde: «Era una questione di dignità! Non avrei potuto guardare in faccia me stessa e il mio popolo se avessi accettato di cambiare posto». Ecco un’idea di fede come recupero e riscatto della propria dignità.

    Quando, al momento del battesimo, viene chiesto ai genitori: «Che nome date al vostro bambino?», il senso è che quel nome non possa essere tradito, che nessuno possa umiliarlo. Toglimi via tutto, ma non quel principio sacrosanto che mi porto dentro, che è la mia dignità. Ancora Rosa Parks, a chi le chiede della sua stanchezza, risponde: «Sì, sono stanca, ho i piedi stanchi, ma la mia anima è riposata».

    Quando Martin Luther King racconta queste storie, le rende leve potentissime di dignità, esempi che si incollano letteralmente alla pelle e che è difficile cancellare.

    Probabilmente di rimbalzo ho approfondito anche la figura di Robert Kennedy, ucciso in quello stesso anno 1968: mi interessava la sua battaglia, la sua visione. King pastore protestante, Kennedy cattolico, entrambi credenti, entrambi capaci di difendere un sogno.

    Ma tra i modelli, tra le figure di riferimento della mia formazione ci sono soprattutto persone normali, “quotidiane”: penso, per esempio, a una zia suora che mi ha sempre parlato del suo padre fondatore che era san Domenico e alla quale non sarebbe dispiaciuto se io fossi diventato frate domenicano. Ma, soprattutto, in una famiglia cattolica come la nostra, insieme a «Famiglia cristiana», arrivava «Il Piccolo Missionario», una rivista dei Padri Comboniani a cui eravamo abbonati, in cui si raccontavano grandi figure di missionari. Padre Giuseppe Ambrosoli, per esempio, che ha speso la sua vita nel Nord dell’Uganda: affascinante soprattutto perché, da uomo benestante, di famiglia ricca – quella delle caramelle al miele!

    – lascia le proprie sicurezze per una vita di impegno generoso nei confronti degli ultimi. E poi Albert Schweitzer, musicista, teologo, pastore della Chiesa luterana, molto stimato e apprezzato: molla tutto e va a Lambaréné, in Gabon, per mettere le basi di un dispensario che poi diventerà un piccolo ospedale.

    E ancora, rispetto agli anni dell’adolescenza, devo ricordare la figura del parroco che ha segnato il mio percorso alla riscoperta di una fede autentica, che non fosse fatta di formule, di liturgie senza senso. Insisteva moltissimo sulla costruzione dell’identità personale: dobbiamo diventare quel che siamo, lo ripeteva quasi ogni domenica nelle sue prediche, in effetti un po’ troppo lunghe. Molti fra i parrocchiani non lo amavano, ma lui andava avanti per quella strada, con radicale ostinazione. Comunque, è probabile che forse anche per questo mia madre, quando sono diventato prete, mi ha dato un unico avvertimento, mi ha strappato una promessa: «Mi raccomando, quando predichi, predica corto, perché altrimenti la gente si stufa».

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