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Luci ed ombre al piccolo ospedale di Pujehun

Qualche passo avanti c’è stato, ma sono ancora troppe le disuguaglianze nell’accesso alle cure. Il chirurgo Carlo Belloni torna in Sierra Leone per la sua quinta missione.

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    «È stata la mia quinta missione in Sierra Leone, come chirurgo, nel reparto maternità dell’ospedale di Pujehun. In passato, un collega italiano era responsabile della pediatria. Oggi, al suo posto, c’è un medico congolese: ottimo professionista e amico. Non più due espatriati europei, ma un espatriato europeo e un africano. Il risultato del fare cooperazione “con” l’Africa! Un altro piccolo miglioramento che ho notato riguarda l’aggiunta di due letti di terapia sub-intensiva post-operatoria e una piccola unità di terapia intensiva neonatale con infermiere dedicate, a dimostrazione di una maggiore attenzione nei confronti dei pazienti critici.

    Purtroppo, in ospedale il turn-over dello staff è ancora elevato. Nonostante non conoscessi nessuno, l’integrazione è stata naturale, ma il continuo ricambio, soprattutto degli infermieri, indebolisce un sistema già fragile. Tutta l’équipe conosce perfettamente la lingua inglese; più complesso, invece, comunicare con le pazienti. Ma anche in questo caso, la presenza del collega congolese è stata di grande aiuto, così come delle infermiere sierraleonesi, che capiscono ogni dialetto.

    Sono di sostegno i community officers: sanitari a metà tra gli specializzandi e i medici, impiegati nel lavoro di base in pediatria, reparto nel quale sono intervenuto nei casi di emergenze chirurgiche».

    Quello che non si vede…

    «Un aspetto che mette a nudo le fragilità del sistema, secondo la mia opinione, riguarda l’incapacità da parte del Governo di un vero sostegno al sistema sanitario del Paese. Dall’anestesista all’ostetrica, il supporto economico dei professionisti dell’ospedale di Pujehun dipende dal Cuamm. Il resto del personale si può definire “volontario”, perché riceve un salario minimo in modo assolutamente saltuario. Chi può si trasferisce a Freetown o in altre grandi città, per lavorare in ambienti privati, perché nel pubblico la speranza di vedere riconoscere i propri sforzi da parte dello Stato è vana. Così, il Cuamm sta puntellando la struttura, dalla manutenzione dell’edificio alle infrastrutture e tutto il resto.

    Non tanto in ospedale, quando fuori, si respira un’aria di rassegnazione. La popolazione si aspetta qualche iniziativa da parte dell’amministrazione territoriale, dal council, dalla chiesa, che si attivano solo sporadicamente. Qualche anno fa, ho assistito alla pulizia straordinaria dell’ospedale da parte di un gruppo di volontari. Ma è stato un caso isolato. Le mamme vivono in povertà e il loro pensiero è trovare una manciata di riso per i propri bambini».

    Quello che non si vede…

    «Il sistema delle ambulanze è un altro scoglio. Possiamo offrire le massime cure in ospedale, ma se i pazienti non riescono ad arrivarci è un dramma. Finché le ambulanze del Nems (National Emergency Medical Service) sono state a carico del Cuamm, il servizio ha funzionato bene. Quando il progetto è passato al Governo, purtroppo, è crollato, in un periodo in cui il prezzo del carburante è raddoppiato. Durante la stagione delle piogge, le difficoltà aumentano, tanto è vero che c’è stata una diminuzione significativa degli accessi in pronto soccorso. I pazienti raggiungono l’ospedale grazie a collette organizzate nel villaggio, in auto o più spesso in moto, ma il tempo necessario è troppo. Si tratta, quasi sempre, di urgenze da risolvere in 24 ore. Anche solo due ambulanze fanno la differenza, ma se non c’è carburante…

    Durante l’ultima missione, mi sono occupato, soprattutto, di complicanze da parto, della gestione di neonati malnutriti e di patologie legate alla primissima infanzia. La soddisfazione più grande è stata andare a trovare le pazienti a casa, per costruire un contatto duraturo».

    Quello che non si vede…

    «Non posso dimenticare la disavventura di un corto circuito in sala operatoria. All’improvviso, è saltata la luce ed era notte! Stavo eseguendo un parto cesareo. Dovevo ancora incidere l’utero per estrarre il bambino. Si tratta della fase più delicata, perché bisogna essere veloci, altrimenti il neonato va in sofferenza. E quella volta è accaduto e la mamma ha iniziato a desaturare. Senza luce era impossibile procedere. Si è sfiorato il dramma. È durato per fortuna 3-4 minuti, l’anestesista ha supportato la madre, il bambino ne ha risentito, ma non in maniera significativa. Davvero un ricordo triste e un momento al limite.

    Ogni domenica andavo a messa, un appuntamento che, al di là dell’aspetto religioso, mi offriva l’opportunità di esprimere la mia vicinanza alla comunità.

    Non sono certo di tornare in Africa. Oggi, più di una volta, sento il peso della responsabilità, il timore dell’errore. A 40 anni ero guidato dall’entusiasmo e, forse, da un’eccessiva confidenza nei miei mezzi. Ora non più: posso fare la differenza, ma la posso fare nel bene e nel male. È fondamentale ricordare che sono persone in cerca di aiuto e meritano la migliore assistenza possibile. Sarei ancora in grado di offrirla?».

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