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Il tempo ritrovato, a Matany

Noemi e Samuele, specializzandi in malattie infettive, raccontano la loro esperienza come Jpo in Uganda

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    Noemi Streva e Samuele Gaggioli sono due specializzandi in malattie infettive all’Università di Firenze. Entrambi hanno scelto di partecipare al progetto Jpo, che consente a chi intraprende la specializzazione di lavorare in un paese africano per alcuni mesi, solitamente sei. La destinazione è Matany, in Uganda, nella regione della Karamoja, a nord del Paese. Si danno il cambio: Samuele arriva poco prima che Noemi rientri. Un passaggio di testimone che sembra più un filo conduttore, fatto di sensibilità comune, di tempo ritrovato, di cure possibili e di limiti dolorosi con cui confrontarsi ogni giorno.

    «A Matany il tempo scorre lento e le attese sono lunghe, ma alla fine della giornata ti senti pieno di vita vissuta», scrive Noemi, sull’aereo che la riporta in Italia. «Matany è un posto fiorito dove la gente ti saluta sempre: se la stessa persona ti incontra dieci volte, ti saluta dieci volte. E ti dice ‘well done‘ mentre tu, che non hai ancora fatto nulla, ti chiedi se riuscirai davvero a fare qualcosa di buono durante la giornata. Se sei stato fuori per il weekend, quando torni in reparto le infermiere ti dicono che sei mancata, perché tu conti e conta il tuo lavoro. A Matany, la Messa è partecipata, cantata e ballata, perché è un’espressione di gioia e gratitudine, e non importa se non sei credente: ci vai lo stesso, perché è un evento di comunità e tu sei parte di quella comunità».

    E il clima che unisce questa comunità è fondamentale per affrontare le sfide lavorative con cui ci si misura ogni giorno. Samuele, dopo un paio di mesi trascorsi sul campo, le conosce bene. Sono le tre e mezza lì quando ci telefona. Dal suo racconto emerge tutta la densità emotiva dell’esperienza.

    «Nonostante io mi stia specializzando in malattie infettive, qui vedo un po’ di tutto: faccio quello che serve, giustamente. In Italia non ero abituato a confrontarmi con tante situazioni diverse, stavo sempre nel mio reparto specifico e per qualsiasi cosa si chiamano i consulenti. A Matany no, perché le risorse umane sono più limitate: la singola persona fa la differenza. È un’attività paradossalmente più gratificante, perché si sente di riuscire a dare un contributo più incisivo, anche per il tipo di pazienti con cui si ha a che fare: c’è tanto da salvare. Spesso sono molto giovani».

    E molto giovani sono le persone colpite da patologie croniche come le malattie di fegato, il diabete o lo scompenso cardiaco. Non di rado, il problema non è solo la malattia in sé, ma l’impossibilità di gestirla nel quotidiano: come conservare l’insulina se non si possiede un frigorifero? Come seguire una terapia quando si vive a decine di chilometri dall’ospedale, senza trasporti affidabili?

    Il ritardo con cui i pazienti arrivano in ospedale, spesso a causa delle grandi distanze, è una delle sfide più grandi: significa trovarsi di fronte a situazioni cliniche già gravissime, in cui le possibilità di intervento sono minime. È la storia, dolorosa, di una ragazza di 25 anni che impressa nei ricordi di Samuele: arrivata troppo tardi per ricevere cure efficaci, è morta in pochi giorni mentre si tentava di arrivare a una diagnosi, lasciando dietro di sé una madre disperata e una bambina di un anno. Imparare a elaborare la rabbia, la frustrazione e la tristezza che derivano da queste storie è parte integrante del percorso.

    «Forse non imparerò mai ad accettare la morte di un ragazzo di 20 anni – scrive Noemi tra le sue riflessioni – ma sicuramente ho imparato a gestirla emotivamente. Mi sono riappropriata delle mie emozioni, che ho vissuto senza sentire il peso del giudizio».

    Non mancano, naturalmente, le storie a lieto fine. E anzi, precisa Samuele, sono la maggior parte. Il punto non è tanto l’esito, quanto un cambio totale di approccio:

    «Qui si è costretti a guarire dalla malattia del perfezionismo che ci affligge in Europa e si impara, davvero e senza luoghi comuni, a fare tanto con poco. E questo significa innanzitutto accettare che oltre un certo livello diagnostico non puoi andare, oltre un certo trattamento non puoi andare. E quello che puoi fare, a volte, è soltanto accompagnare. Non è poco: aiuta a ritrovare la passione nel visitare i pazienti, nello stare con loro e raccogliere la storia per bene, dall’inizio alla fine. E si parte da una domanda: qual è la cosa migliore che posso fare per questa persona, con quello che abbiamo? È l’insegnamento più grande che mi porto a casa».