Il privilegio di fare il bene
Un viaggio in Sierra Leone, per vedere come procede il lavoro del Cuamm. Fabio Manenti, responsabile Progetti, racconta impressioni e sensazioni di un paese in fermento, che ha tanta voglia di chiudere il capitolo Ebola.
È appena rientrato dalla Sierra Leone, Fabio Manenti, responsabile Progetti del Cuamm. Una missione veloce, un paese che non vedeva da quattro anni, un viaggio che lo ha portato a visitare le sedi dei progetti del Cuamm, a incontrare i cooperanti sul campo, a parlare con le autorità locali. Prima tappa: Freetown, la capitale, per sondare nuove e possibili piste di lavoro.
«Sierra Leone, quattro anni dopo e “quasi” dopo Ebola. C’è voglia di vivere, tanto movimento. Grandi piani ambiziosi a livello centrale. Poca capacità a livello di implementazione. Che tradotto vuol dire: aria condizionata e televisore da almeno 42 pollici sempre accesso, a indicare lo status del potere e di chi pensa e decide. La sonnolenza o l’apatia di chi è sul posto di lavoro. Ebola ha acceso i riflettori e tante risorse sono arrivate. Che succederà quando risorse e riflettori si spegneranno, in un paese dove tutto si compra e si vende inclusa la salute? Chi si ricorderà che senza competenza e personale qualificato di parto si continuerà a morire come e più di prima? A 4 anni, dalla prima volta che ho messo piede qui, trovo lo stesso bel paese dalle potenzialità enormi. Purtroppo colpito dal flagello dell’Ebola e ora dalle alluvioni».
Manenti si è poi spostato a Lunsar, dove Medici con l’Africa Cuamm ha cominciato a lavorare a inizio 2015, per aiutare a riaprire l’ospedale gestito dall’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio. E infine, è arrivato a Pujehun, ospedale in cui lavorano Enzo, Ottavia, Alessandra, Francesca e Stefano e con loro molto personale locale.
«Quattro anni fa qui c’erano caldo e sudore, un letto operatorio bloccato a 1,5 metri, due donne che avevano partorito e tre bambini ricoverati… Oggi, dopo il lavoro dei nostri medici, sono più di 50 i ricoverati tra mamme e bambini, nella media in gravi condizioni; il personale è indaffarato a preparare la sala operatoria per due emergenze ostetriche appena arrivate. Il mio pensiero diventa quindi un “grazie” a tutti i medici e tutti gli altri che lo hanno reso possibile e che hanno il privilegio di aver fatto qualcosa di buono. Ora il nostro sudore si mescola a quello di queste mamme e bambini».
Un lavoro che si può raccontare anche attraverso alcuni dati, quelli del 2014, distretto di Pujehun: 11.664 parti assistiti, 14.025 visite prenatali, 11.189 bambini vaccinati e 205 i trasporti in ambulanza effettuati.
«Nel Distretto di Port Loko si percepisce un grande fermento per uscire da Ebola. Le studentesse fanno gli esami sotto l’albero, ma poi che prospettive hanno? Diplomarsi come infermiere e non essere assunte dal ministero, perché i salari sono un costo che i donatori non sostengono. Ci sono 135 nuove ambulanze nel paese, ma come funzioneranno se non ci sono fondi per pagare gli stipendi degli autisti? È così le donne resteranno a partorire in casa come prima… Verrebbe la tentazione di alzare le mani e arrendersi, ma non lo faremo, ancora una volta, come non lo abbiamo fatto allo scoppio dell’Ebola. Da Freetown a Bruxelles, da 30 gradi con 98% di umidità a 7 gradi il passaggio destabilizza. Da povertà e carenza di ogni cosa, alle scale mobili e ai modelli sempre più grandi di SUV. Agli occhi di chi rientra dall’Africa, il contrasto è abbagliante: lì, ovunque, ci sono bambini sudati e vestiti di stracci che corrono e sono felici di salutarti. Qui, tutto si riduce a controllo e sospetto verso ogni faccia nera o verso un abito non occidentale».