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Un mondo da raccontare

La testimonianza di Elisa Manzini, Junior Project Officer in Pediatria, rientrata dall’ospedale di Tosamaganga, in Tanzania, dopo sei mesi di servizio.

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    «Da quando sono tornata in Italia ho notato qualcosa a cui prima non avevo mai prestato particolare attenzione: quanto i bambini siano poco in contatto con le mamme. In Tanzania si vedono i piccoli sempre avvolti in tessuti colorati sulle spalle delle mamme o in braccio. Esiste un modo di entrare in relazione differente rispetto al nostro, profondo e unico.

    Se penso ai mesi trascorsi a Tosamaganga, ricordo con affetto l’unione instaurata con i colleghi e con i compagni di esperienza, che si rifletteva nella condivisione della quotidianità, nell’essere vicini e uniti per la stessa causa».

    Quello che non si vede…

    «Tornando a casa, mi sono accorta anche di quanto mi piacesse lavorare in un ospedale all’aria aperta, in cui era costante entrare ed uscire, incrociare sguardi e sorrisi. Al mio rientro, sono stata accolta da amici e familiari con tante curiosità, con la voglia di capire. Alla domanda: “Tutto bene in Africa?”, replico che è impossibile rispondere in poche parole. C’è davvero un mondo da raccontare! La Tanzania è un Paese bellissimo e i Tanzaniani ne sono consapevoli. Esprimono vero orgoglio per la propria terra. Imparando un po’ di swahili, sono stata colpita da quanti modi diversi ci siano per dire la stessa parola. Ad esempio, “verde” cambia a seconda degli elementi della natura a cui è riferito. La Tanzania si impegna per investire in formazione, crede nella crescita e il suo popolo ha la curiosità di conoscere. L’accoglienza è infinita.

    L’esperienza come Junior Project Officer mi ha cambiata, mi ha permesso di vedere cose con occhi nuovi. Ho fatto mio un bagaglio immenso di competenze che mi porterò dietro per il futuro. Lo scontro con la realtà mi ha reso consapevole, fin da subito, che non sono onnipotente, che esistono, purtroppo, evidenti limiti da comprendere e accettare. Possiamo solo fare del nostro meglio».

    Quello che non si vede…

    «Mi tengo stretto, in particolare, il saper ascoltare e attendere, il non giudicare, il non correre nemmeno con i pensieri, perché prima è necessario vedere, sentire, capire e dopo fare. Credo sia questa la chiave per lavorare bene con l’Africa. Le mamme e i papà, anche nelle circostanze più disperate, come la perdita di un figlio, ringraziano e questo riempie il cuore, suona come un “grazie perché comunque c’eri”. Allora il dolore diventa condiviso, così come la gioia. Anima la felicità per la guarigione, quando le mamme vengono a salutare e mostrano le foto dei bambini che avevamo ricoverato per malnutrizione e che ora si stanno riprendendo, pian piano. I bambini arrivano in ospedale senza forze, sono apatici perché malnutriti e vederli tornare a giocare, a camminare per i corridoi, assistere a quel cambiamento dopo il trattamento è incredibile. Questi mesi sono stati un vero banco di prova, per capire se il mio futuro come medico può essere nella cooperazione. E la mia risposta è sì! Riconosco, comunque, che c’è del bello nel tornare: si chiude un cerchio che ti appartiene, se ne aprono altri, ma continuare a parlarne è arricchente ed è come se l’esperienza continuasse, in un’altra forma».

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