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Quando i bambini tornano a sorridere

Vincenzo Mancini, specializzando in Pediatria all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ripercorre il semestre trascorso a Tosamaganga, come Junior Project Officer.

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    «Perché ho scelto di partire con il Cuamm? Ero certo che un periodo di formazione sul campo potesse offrirmi qualcosa in più rispetto alla quotidianità che vivo in un ospedale italiano. Al quinto anno di specializzazione in Pediatria ho capito fosse il momento giusto per conoscere un mondo nuovo e, soprattutto, essere d’aiuto. Anche il passaparola è stato fondamentale: ho conosciuto l’Ong di Padova grazie ad un collega che, in precedenza, era stato Junior Project Officer a Tosamaganga e dove, poi, si è fermato per ben tre anni! Contagiato dal suo entusiasmo, ho scelto di mettermi in gioco, di uscire dalla mia zona di comfort e provare a vedere che cosa ci fosse là fuori. Nonostante il corso pre-partenza, i colloqui e i momenti di riflessione, quando sono arrivato in Tanzania tutto è stato una sorpresa. Ci si prepara, ma esserci sconvolge e cambia il proprio approccio alla vita.

    Lo scoglio maggiore da superare è stato affrontare la morte sotto l’aspetto professionale e umano: inizialmente, le due sfere si mescolano e si fa fatica a scindere ragione ed emotività. Purtroppo, poi, ci si abitua a tutto. E il fatto di considerare la morte come qualcosa che può accadere aiuta a mantenere lucidità e ad operare in modo migliore. Il sostegno dei colleghi locali è stato essenziale per accettare le difficoltà. A Tosamaganga i medici sono abbastanza, tra ginecologi, internisti, pediatri… Il pranzo e la cena rappresentano davvero momenti di condivisione, che permettono di confrontarsi per alleggerire l’animo da emozioni pesanti che si provano giornalmente».

    Quello che non si vede…

    «La malnutrizione è ancora condizione di tanti pazienti africani. Ogni volta che osservavo bambini rifiorire, semplicemente, nutrendoli, senza medicine sofisticate, ma dando loro ciò che non hanno mai avuto, assistere alla loro trasformazione, è stato incredibile. Sono bambini che mi porto dentro. Ne ricordo una, in particolare, che a 10 mesi pesava soltanto due chili e 300 grammi. Appena arrivata in ospedale, era irritabile, piangeva spesso, dormiva poco. Sembrava un caso senza via d’uscita. E, invece, seguendo il protocollo contro la malnutrizione, la piccola ha cominciato a prendere peso e ci regalava sorrisi indimenticabili, con occhi giganti e un’espressione di serenità!

    Quando la pediatra Martina è andata in ferie, è stato un banco di prova per me e per la mia collega Jpo Francesca. Accanto a noi, un tutor tanzaniano, ma abbiamo assunto maggiore autonomia che ci ha permesso di crescere. Lo sforzo di imparare la lingua locale, lo swahili, è stato ripagato dai genitori dei pazienti, grati e sempre riconoscenti. All’inizio capitava che mostrassero un po’ di diffidenza, ma quando scoprivano che parlavo la loro lingua, si meravigliavano e questo abbatteva ogni barriera».

    Quello che non si vede…

    «Sono le mamme e i bambini abbandonati da un sistema sanitario in cui tutto è a pagamento. Nei reparti dove il Cuamm non c’è, la differenza si tocca con mano, perché per chiedere un esame o per fare una terapia bisogna avere denaro a sufficienza. Ma quello che non si vede sono anche i reparti che funzionano, grazie all’impegno di tutti; la capacità di rialzarsi di tanti Tanzaniani, l’approccio alla vita che noi, a volte, dimentichiamo. La semplicità, dentro e fuori l’ospedale, nell’essere sociali. Tutto questo per me è stata la lezione più grande!».

    Il futuro nella medicina del territorio

    «All’età di 40 anni il mio progetto di vita è fare medicina del territorio, il pediatra di libera scelta nella mia città per vedere crescere i bambini e instaurare un legame con le famiglie. Mi piacerebbe tornare in Africa per periodi brevi. La cooperazione sanitaria internazionale mi ha dato una pienezza che negli altri lavori difficilmente ho trovato, ma sono grande e devo gettare qualche fondamenta, prima di ripartire!».

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