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Pediatri a Wolisso

Le testimonianze di Giulia Nuzzi e di Lorenzo Riboldi, in missione per sei mesi come pediatri all’ospedale di Wolisso, per un breve periodo anche a Jinka, in Etiopia.

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    «È stata la mia prima esperienza sul campo. L’avventura è iniziata con un pianto, appena entrata in un mondo lontano. E si è conclusa allo stesso modo, per il distacco dai colleghi con cui sono nate relazioni profonde. Differenze di abitudini e linguaggi non contano se i nostri intenti sono identici e i nostri cuori aperti.

    Sei mesi sembrano un tempo lunghissimo. Vivendolo, invece, è trascorso troppo velocemente. Tante le paure al primo impatto, ma dopo qualche notte, mi sono messa in gioco e calata nel contesto. Tornare in Italia è stato complesso, perché all’ospedale di Wolisso ho trovato una famiglia, composta da Junior Project Officer e dai colleghi nei reparti di Pediatria e Neonatologia. Ricordo uno scambio di battute con un infermiere dell’Unità di terapia intensiva neonatale (Nicu). Dissi che ero in partenza e lui rispose, cambiando espressione: “Tutte le volte in cui facciamo famiglia, ve ne andate”. Mi ha impressionato il modo in cui i colleghi vivono il distacco.

    Un paziente speciale è stato Akawak, un bambino nato con la spina bifida e abbandonato dai genitori. È diventato la mascotte del reparto, stando con noi tre mesi e mezzo. Abbiamo organizzato una raccolta fondi, affinché il piccolo potesse essere trasferito ad Addis Abeba ed operato. Akawak è un pezzo di cuore che ho lasciato lì!

    Come Lorenzo, ho lavorato anche a Jinka, un contesto ospedaliero differente rispetto a quello in città: sono entrata in stanze con tanti letti vuoti, perché genitori e bambini dormono a terra. Vicino alle tazze in terracotta. Sono molteplici e affascinanti i gruppi etnici di appartenenza dei pazienti. L’acceso ai servizi sanitari arriva troppo tardi, a causa di difficoltà logistiche ed economiche. Se i pazienti in Italia presentano malattie all’esordio, in Africa sono in uno stadio avanzato, con complicanze. Medicalmente e antropologicamente è sfidante, ma anche doloroso da accettare. Sempre maggiore è l’attenzione del personale sanitario all’Early childhood development per insegnare anche ai papà, non solo alle mamme, a giocare con il bambino, a prendersi cura del proprio figlio.

    Che cosa mi porto a casa da questa esperienza? Tantissimo, perché mi ha aiutato a cogliere l’essenzialità della cura e del mio lavoro. L’allattamento, sempre e comunque, perché è la natura che comanda. Ho imparato a lavorare insieme e a confrontarmi. In Italia ci si sente molto più soli. Nella Nicu di Wolisso, invece, si fa parte di un team. I colleghi locali insegnano a porsi un limite, ad accettare la morte come parte della vita. Con questa esperienza ho iniziato a capire la cooperazione. Sento d’istinto che ho appena assaggiato questo modo di fare il medico, con una consapevolezza diversa e un bagaglio sempre più pieno».

    Giulia Nuzzi

     

    «Qualche difficoltà iniziale c’è stata per inserirsi in un contesto nuovo, per fare capire ai colleghi che mi trovavo lì per offrire tutto l’aiuto possibile. Si fatica e si prova frustrazione quando, nel primo periodo, non ci si sente accettati. Pian piano, lo staff ha iniziato ad avere fiducia in me e ad insegnarmi. Abbiamo ragionato con calma e pazienza. Si possono ottenere buoni risultati, guardando l’orologio piano piano.

    Con la morte il rapporto è a “tu per tu”. In Pediatria provavo a rianimare un paziente e i colleghi mi dicevano di fermarmi. L’ho capito dopo che, talvolta, bisogna arrendersi alla morte.

    Quando l’integrazione funziona si crea un clima magico. L’ostilità iniziale penso sia dovuta anche al turnover di professionisti. Ma se si acquista fiducia, poi si fa vero gruppo. Stare assieme significa sostenersi nelle difficoltà, dall’inizio alla fine.

    Al pomeriggio giocavamo a calcio assieme e partecipavamo alla cerimonia del caffè. Con Giulia, ho offerto anche formazione agli infermieri per migliorare i servizi e fare rispettare le linee guida. In Africa ho ritrovato la passione per il mio lavoro. I colleghi mi hanno insegnato la pazienza, la lentezza, necessarie per vivere le cose come vengono e non forzare per fare le cose come vorremmo».

    Lorenzo Riboldi

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