Fare ognuno la propria parte senza “lasciare nessuno indietro”
Quando l’Africa ti ha dato molto, continua anche a insegnare a fare in ogni contesto quello che è possibile.
L’emergenza coronavirus ha investito profondamente tutte le componenti del sistema sanitario italiano, specie per chi è stato chiamato a fare sorveglianza dei casi Covid-19 a domicilio e per la somministrazione dei tamponi o per chi è impegnato a integrare nel sistema sanitario nazionale i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale presenti sul territorio di Bologna. Con uno sguardo all’Africa e un altro all’impegno possibile, qui ed ora. Ne parliamo con Paola Gaddi e Fabio Capello.
Paola, cosa prevede il progetto europeo “Icare” che tu gestisci?
«Si tratta di creare un percorso multidisciplinare, interdipartimentale e culturalmente orientato che permetta l’integrazione di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale all’interno di servizi già esistenti a livello territoriale ed ospedaliero. Questo progetto prevedeva moltissime attività cliniche, una parte ginecologico-ostetrica e una piccola parte di supporto psicologico e psichiatrico per questi gruppi vulnerabili, ma ora tutte le Ulss sono bloccate e la maggior parte del personale del progetto non ha potuto proseguire le attività perché impegnato all’interno dei dipartimenti di sanità pubblica. Siamo rimaste in tre: io, un’ostetrica e una psicologa».
Un intervento in continuità con il tuo precedente impegno?
«In effetti, fino a novembre del 2019 mi occupavo anche di strutture per “senza fissa dimora”. I migranti e le persone senza fissa dimora hanno moltissimi punti in comune. Perciò, essendo rimasta in contatto con quella realtà, ho chiesto di utilizzare le mie ore di specialistica per tornare ad occuparmi anche dei dormitori».
Che cosa ti preoccupa di più in questa fase dell’emergenza?
«L’emergenza avrà un grave impatto su queste popolazioni che, avendo già grandi vulnerabilità sociali e sanitarie, si trovano ancora più fragili, sempre più ai margini e “sole”. Si fa sempre più tangibile il cosiddetto “effetto migrante esausto”: questo significa che alle esperienze traumatiche già vissute dai migranti si aggiunge, tra le altre, un sensibile peggioramento delle condizioni di salute, un maggiore disagio psicologico e la precarietà abitativa. Per i “senza fissa dimora” si aggiungono ulteriori complessità, come le dipendenze attive e non da alcol e droghe che li portano ad allontanarsi dalle strutture di accoglienza per andare a cercare la sostanza o, se sono in fase di riabilitazione, ad uscire per prendere i farmaci distribuiti dalle unità mobili. Se già prima l’attenzione per questi gruppi vulnerabili – circa 2700 persone nel territorio di Bologna – non era appropriata, ora con l’emergenza Covid19 garantire i servizi adeguati è ancora più complesso. L’eventuale registrazione di un caso positivo in una delle strutture ci metterebbe davvero a dura prova, esponendo operatori ed ospiti ad un rischio elevato».
C’è un problema di spazi adeguati, in questa fase “distanziamento sociale”?
«I grandi limiti abitativi delle strutture si scontrano con le misure preventive per ridurre i contagi: tutti gli ospiti dormono dentro a grandi stanze, gli uni vicino agli altri, dove le distanze di sicurezza, anche fra i letti, difficilmente posso essere rispettate. Inoltre, diventa problematico poter garantire l’integrazione dei servizi socio-sanitari. Per molti aspetti gli ospiti delle strutture dipendono dall’operatore, che li accompagna alle visite e gli dice come e quando prendere le medicine. L’operatore però non è un sanitario, perciò non può prendere decisioni riguardanti la salute degli ospiti della struttura; allo stesso tempo, non è un tutore legale e quindi non ha “potere” su persone maggiorenni».
Su cosa bisognerebbe investire di più?
«Bisognerebbe promuovere l’empowerment di questi gruppi vulnerabili, ma quello che possiamo fare e stiamo facendo ora, con un piccolo gruppo di persone che si è presa a cuore questo progetto, è elaborare protocolli, spiegare le norme di sicurezza e le pratiche igienico-sanitarie in diverse lingue, e soprattutto attivare una linea di psicologi e psichiatri per rimanere a disposizione telefonicamente, anche per dare supporto agli operatori delle strutture. Inoltre, partiremo con una formazione online per gli operatori in collaborazione con il Comune, focalizzata a prevenire e a contenere l’eventuale diffusione del contagio all’interno di queste strutture, adattando l’intervento alle caratteristiche di ogni specifica realtà».
Dove ritrovi oggi l’Africa in tutto questo?
«Anche il nostro sistema sanitario, specie in un’emergenza di queste proporzioni, benché a carattere “universalistico”, è in affanno e non riesce a garantire adeguati livelli di assistenza a coloro che sono meno tutelati. La soluzione perfetta non esiste. Se nei centri per richiedenti puoi cercare di fare ancora una medicina “occidentale”, non è possibile invece nelle strutture per “senza fissa dimora”, dove la medicina deve essere più tarata sulla persona, sulla situazione, e dove è impossibile attenersi a degli standard. Le linee guida ti dicono come dovresti fare, ma puoi solo cercare di riadattarle al caso specifico in base agli strumenti che hai a disposizione. Quella che si può mettere in campo ora è una medicina molto più simile a quella africana: fare del proprio meglio con quello che si ha».
Che ricordo conservi dell’esperienza angolana?
«Senza dubbio l’Africa ci ha insegnato tantissimo. Impari a ragionare in maniera più lineare, con meno carta in mezzo tra te e quello che stai cercando di fare. Ti abitua ad un approccio più pragmatico. I racconti di questi giorni in tv o alla radio dei medici di terapia intensiva, sulle valutazioni di chi curare, descrivono una decisione che ha dovuto prendere qualsiasi medico che abbia lavorato in Africa. Fabio ed io eravamo a Chiulo, in Angola, durante un’epidemia di colera che ha paralizzato il paese per alcuni mesi e, avendo solo un numero limitato di cannule, la domanda era sempre la stessa: “la uso per questo paziente o per il prossimo?”».
Fabio, qual è il tuo punto di vista?
«Ritorni a casa con un occhio differente e un’obiettività diversa rispetto al medico che è abituato a lavorare normalmente qui. Non siamo in prima linea in ospedale in questa battaglia, ma è facile immedesimarsi e capire la fatica dei colleghi, avendola vissuta, anche se in un contesto diverso, con meno risorse. In queste settimane ci siamo detti più volte che forse dobbiamo imparare a fare medicina come si fa in Africa, come l’abbiamo fatta con il Cuamm, non perché abbiamo la presunzione di poter insegnare qualcosa a qualcuno, ma perché vale la pena sfruttare tutto ciò che l’Africa ti dà».
Paola, cosa è cambiato al vostro rientro in Italia?
«L’Africa ci ha dato moltissimo. La scuola africana ci ha forgiati: impari a fare quello che puoi e ad accettare che non puoi fare altrimenti. Adesso il mio “ultimo miglio” l’ho trovato qui in Italia e ho la fortuna di fare quello che mi appassiona. Certo, il confrontarsi con molta burocrazia e politica a volte è pesante ma, appena ritrovi il contatto con le persone, la motivazione e la passione riappaiono subito chiare».
Che significato ha il vostro coinvolgimento con il gruppo di Bologna ai “tempi del Coronavirus”?
«Cerchiamo di tenere virtualmente la nostra riunione settimanale, sia per cercare di mantenere una parvenza di “normalità”, sia per creare uno spazio di vicinanza, condivisione e confronto su tutto ciò che sta accadendo. Ci scambiamo informazioni, riflessioni anche se manca in parte l’alchimia che si crea quando si è fisicamente nella stessa stanza. Per noi ora è fondamentale mantenere vivi i contatti e l’attenzione anche attraverso i social, sempre “in stile Cuamm” fiducioso, positivo».
Chi sono Fabio Capello e Paola Gaddi. Marito e moglie, medici Cuamm a Chiulo, in Angola nel 2013, sono ora attivissimi all’interno del Gruppo di Medici con l’Africa Cuamm di Bologna. Poco prima dello scoppio dell’emergenza Coronavirus, Fabio e Paola hanno cambiato entrambi lavoro. Fabio è passato dall’essere un pediatra ospedaliero ad uno di comunità, mentre Paola da internista a specialista ambulatoriale in pneumologia. Entrambi hanno dato la propria disponibilità per fronteggiare l’emergenza, in particolare per la sorveglianza dei casi Covid-19 a domicilio e per la somministrazione dei tamponi. Paola è ora impegnata anche nella gestione del progetto europeo “Icare” (Integration and Community Care for Asylum and Refugees in Emergency) che ha l’obiettivo di integrare nel sistema sanitario nazionale i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale presenti sul territorio di Bologna.