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Un cancello che si apre sempre

Il racconto di Filippo Pistolesi, giovane jpo partito per l’Angola che sta facendo un tirocinio di sei mesi all’ospedale di Chiulo, in Angola.

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    «Non tutte le notti sono serene a Chiulo, ci sono notti in cui i piccoli pazienti sono chiamati a grandi sfide e sono costretti a crescere, o nel peggiore dei casi, a lasciare questo mondo ingiusto, dove le diseguaglianze in salute sono ancora troppo grandi». Inizia così il racconto di Filippo Pistolesi, giovane jpo partito per l’Angola che sta facendo un tirocinio di sei mesi all’ospedale di Chiulo. Ci parla della sua quotidianità attraverso un racconto fatto di suoni e immagini, che ci permette di percepire tutta l’emozione di un’esperienza difficile, ma straordinaria. «A Chiulo c’è un cancello  che chiude il compound dei cooperanti, non ci sono telecomandi per farlo funzionare ma solo un vecchio catenaccio con un lucchetto. Il rumore di quel catenaccio presto diventa familiare, scandisce le entrate e le uscite dalle nostre case verso l’Africa più vera, verso l’ospedale. Quando senti quel rumore significa che al di là della strada, in ospedale, c’è qualcuno che ha bisogno di aiuto. La risposta a quel bisogno inizia concretamente nel momento in cui si apre il cancello e si accolgono i pazienti. Chi lo apre più di frequente è Carlo, il nostro capo area, spesso viene chiamato nel cuore della notte per un intervento urgente e allora quando lo sento uscire, il sonno diventa leggero, come quando siamo di guardia, e mentre cerco di riposare, resto sempre in ascolto del silenzio fuori per percepire nuovamente quel rumore, che significa che Carlo è rientrato e con lui anche l’emergenza. A volte però quel rumore non arriva e viene sostituito da un canto di addio, che oltrepassa i muri della mia stanza, è il lamento straziante che accompagna una persona cara ad un lungo viaggio; in quelle notti è difficile riprendere il sonno. Qualche volta è capitato anche a me di aprire quel cancello per andare in ospedale, dopo esser stato svegliato dal gracchiare della radio, dalle voci degli infermieri che avevano bisogno di aiuto per gestire un’emergenza. Attraverso il buio più nero con una lampadina sulla fronte per illuminare la strada verso l’ospedale, sempre attento a non inciampare, mentre cerco di immaginare una soluzione per il paziente con le poche risorse disponibili. Quando però si supera la fase critica e la situazione d’emergenza rientra, dopo un grande lavoro di gruppo, posso rientrare a casa. E la stessa strada, percorsa a ritroso, diventa meno spaventosa e qualche volta trovo il tempo di osservare le stelle che illuminano l’angolo di mondo in cui mi trovo. E di fronte alla sconfinata bellezza di quelle piccoli luci nel cielo dimentico per un istante la fatica e mi godo uno degli spettacoli più sorprendenti dell’Africa».