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I PROBLEMI CONDIVISI DIVENTANO PIÙ PICCOLI

Giada Alterini, Jpo di Medicina interna, rientrata dopo 5 mesi di servizio a Shinyanga, in Tanzania, riflette su un’esperienza che le ha permesso di mettersi in gioco e di crescere come medico e come persona.

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    L’importanza della comunità e della famiglia, la fatica portata insieme. Giada Alterini, Jpo di Medicina interna, rientrata dopo 5 mesi di servizio a Shinyanga, in Tanzania, riflette su un’esperienza che le ha permesso di mettersi in gioco e di crescere come medico e come persona.

    Giada, come è stato il tuo rientro?
    «Da quando sono tornata, sento di avere moltissime cose da raccontare ma ho avuto bisogno di tempo, anche per rendermi conto di tutto ciò che ho vissuto. La mia partenza è stata complicata perché non avrei voluto lasciare “i miei fratelli” in quella situazione di estrema incertezza. Di cuore sarei rimasta ma per una serie di impegni, la tesi da finire e l’università quasi al termine, non potevo restare. Nella settimana del ritorno ho prenotato tre voli, due sono stati cancellati e il terzo è quello che poi mi ha riportata in Italia. All’annuncio del primo caso Covid in Tanzania, ero seduta sui letti della neonatologia con quattro colleghi locali. Ricordo le loro facce terrorizzate. Pochi giorni prima avevo parlato dell’Italia, della preoccupazione per la mia famiglia. Poi Jeffry, uno specializzando, ha esclamato: “Se è successo questo in Italia, cosa succederà a noi?”. Io sono rimasta senza parole, in silenzio».

    E poi, come sono andate le cose?
    «Nei giorni successivi abbiamo cominciato ad organizzare il reparto. C’era tensione per la consapevolezza che avevamo solo 5 postazioni con ossigeno in tutto ospedale, non c’erano ventilatori, nessuna terapia intensiva e nemmeno farmaci e mascherine sufficienti, e anche poche informazioni. Abbiamo vissuto insieme emozioni altalenanti, l’incertezza di quello che sarebbe stato di lì a poco: partire o rimanere. Poi è arrivata la conferma del mio volo di ritorno. Tutti i colleghi e amici sono venuti a trovarmi a casa e la mia partenza è diventata una festa. Al momento dei saluti, mi hanno detto: “Non piangere. I problemi condivisi sono più piccoli e qui siamo in tanti. Non ti diciamo addio perché crediamo nel destino e sappiamo che tornerai e noi ti aspetteremo”».

    Quale scenario intravedi per la Tanzania?
    «La mia paura più grande è che possa diffondersi il contagio, ma non solo. Alle morti direttamente causate da Covid, vanno aggiunte tutte quelle correlate, da malnutrizione, da povertà e da tutte le patologie non trattate adeguatamente in questi mesi. Alcuni medici si sono dimessi perché negli ospedali regionali non ci sono le protezioni nemmeno per gli operatori. In Italia siamo davvero fortunati perché abbiamo la possibilità di essere curati gratuitamente e la maggior parte di noi hanno potuto trascorrere l’isolamento in una casa calda, in famiglia, senza che ci manchi da mangiare. In Tanzania, come in molti altri paesi, non è così».

    Cosa porti con te da questa esperienza?
    «Sicuramente porto con me l’importanza della comunità e della famiglia. Un malato senza la sua famiglia o gli amici che lo accudiscono, che gli portano le medicine, che gli danno da mangiare, non ha possibilità di essere curato. È tutto sulle spalle dei parenti perché mancano le figure professionali che qui invece abbiamo. Capisci che nella nostra società abbiamo perso il valore dell’aiuto reciproco e il senso della comunità. Quando ho avuto una gastroenterite molto forte, la mia insegnante di swahili, diventata anche un’amica, si è arrabbiata perché non le avevo detto che stavo male e io, rassicurandola, le ho detto che le mie colleghe mi avevano portato sempre da mangiare. Lei mi ha guardato e ha esclamato: “Perché pensi che se stai male, l’unica cosa di cui hai bisogno è il cibo?”, intendendo dire che prendersi cura di una persona è molto di più. Noi “occidentali” pensiamo che la dimensione della cura si possa pretendere come diritto e si possa comprare».

    Cosa ti ha colpito di più durante i mesi trascorsi in Tanzania?
    «Il loro approccio alle difficoltà e alla morte. Noi viviamo una vita “facile” e spesso non siamo in grado di apprezzare tutto ciò che abbiamo. Lì capisci, anche lavorando in ospedale, che tutto è estremamente labile e vivi nella profonda consapevolezza di quanto sei fortunato. Da medico fai sempre tutto ciò che è in tuo potere ma la morte è una cosa di cui fai subito esperienza, in modo brutale. Anche rispetto al coronavirus, io ho reagito con angoscia e frustrazione perché avrei voluto cambiare la situazione; loro accettano ciò che non possono cambiare. In Italia la morte ci viene raccontata e la viviamo in età adulta nella maggior parte dei casi, mentre lì ti rendi conto fin da piccolo che la vita ti può sfuggire: il presente è oggi e non ha senso vivere al passato o al futuro. Così cambiano le tue priorità, la percezione delle cose e ridimensioni i limiti che pensavi di avere. Il mio cuore e la mia testa sono rimasti lì, per i miei “fratelli” e accanto a chi resta».