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Le conseguenze della malaria in gravidanza

La testimonianza di Francesco Vladimiro Segala, Junior Project Officer in Malattie infettive, rientrato da Aber, in Uganda.

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    «Nei cinque mesi di servizio, mi sono occupato di scrivere il protocollo per un progetto di ricerca sulla malaria in gravidanza. L’esperienza è stata uno shock culturale: entrare in contatto con un bisogno così forte ha rappresentato per me quasi un punto di non ritorno. Da un lato, è stato toccare con mano la malaria, una patologia presente nella quotidianità e nella stagionalità della vita della popolazione, scoprendo come riescano a conviverci».

     Quello che si vede…

    «La malaria in gravidanza, poi, è una patologia a sé stante. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che un terzo delle donne gravide che vivono in Africa subsahariana contragga l’infezione nel corso della gestazione. Questo dato in Uganda, probabilmente, è ancora più elevato, trattandosi del terzo Paese al mondo per incidenza di malaria. Occuparsi di malaria in gravidanza è importante perché, oltre ad essere una patologia che mette a rischio la vita di tante donne, una parte di questi casi diventa malaria placentare. La malaria placentare è una condizione che ostacola lo sviluppo del feto e che si traduce in nascita di bambini prematuri o sottopeso. E un bambino che nasce con basso peso, in genere, non raggiunge le capacità cognitive di un bambino che nasce normopeso, facendo sì che le conseguenze di questa malattia si ripercuotano, potenzialmente, sul futuro di generazioni.

    La nostra ricerca sulla malaria in gravidanza continuerà per due anni e i primi risultati sono sorprendenti. Stiamo facendo uno screening per la malaria nelle donne che vengono alle visite prenatali. Troviamo molti casi di infezione asintomatica, ma che potrebbero comunque danneggiare il feto. Ci aspettiamo che il numero di queste infezioni salga con l’arrivo della stagione delle piogge. Stiamo proponendo la terapia a tutte le mamme e, intanto, mandiamo i campioni di sangue all’Istituto Superiore di Sanità, l’unico centro in Italia in grado di rilevare la resistenza ai farmaci contro la malaria, soprattutto ai derivati dell’artemisinina, la prima linea di trattamento per la malaria moderata e severa. È stato, infatti, da poco scoperto che la resistenza ai derivati dell’artemisinina esiste anche in Africa e una cosa che ci insegna il passato è che, una volta che una resistenza compare, poi resta e si diffonde. Appena avremo i campioni analizzati, potremo dire quanto questa resistenza è diffusa nella nostra popolazione di mamme e, forse, potremo stimare quanti bambini sono nati sottopeso, prematuri, quante malarie severe ci sono state nelle donne gravide».

    Quello che si vede…

    «È l’enorme albero di mango che si trova dietro l’ospedale di Aber, accanto alla mensa, dove ci sono sempre cinque o sei donne in piedi ad aspettare. Ogni tanto, nella stagione delle piogge, si sente il tonfo di qualcosa che cade e, poco dopo, il rumore dei passi di chi corre verso quel tonfo, il frutto caduto, che diventa il pranzo per il proprio parente ricoverato in reparto. Quel mango rappresenta l’accudimento del malato, che in Africa è affidato alla famiglia».

    Quello che non si vede…

    «Quello che, sicuramente, mi ha sconvolto di più è stato il contatto con la povertà profonda. La si percepisce così forte solo dopo un po’ che si vive lì. Quando, ad esempio, si cura una bambina che non guarisce dalla polmonite e ci si arrovella sul fatto di aver sbagliato la terapia, finché un collega ugandese non chiede ai genitori da quanto tempo non mangi e si comprende che, da quando è ricoverata, non l’ha mai fatto, non ha mai mangiato, perché deve già sostenere le spese dell’antibiotico.

    Invito i miei colleghi e le mie colleghe in Italia a partire perché è un’esperienza che, come medici e come esseri umani, a prescindere dalle inclinazioni e dalla sensibilità individuale, rimane dentro per sempre. Come medico si imparano il valore e il significato di una prescrizione, dove porre l’indicazione per un esame o per una terapia significa essere davvero convinti che sia indispensabile, perché il paziente quella prescrizione deve pagarla. Il dover contrattare tutto con il malato significa che, come medici, siamo costretti a porci domande sull’effettivo valore di ciò che stiamo facendo. Dal punto di vista umano, invece, ci si rende conto che esistono altri mondi, ma che quei mondi sono comunque il nostro.

    La missione mi ha portato a riflettere, profondamente, sulla mia traiettoria professionale e mi ha convinto ad iniziare quest’anno un dottorato all’Università degli Studi di Bari, grazie al quale parteciperò anche ad una ricerca in Etiopia sulla tubercolosi.

    È un vero cambio di rotta: vorrei proseguire la mia attività di ricercatore, ma con una ricerca che si proponga di combattere le disuguaglianze, rivolgendosi ai più vulnerabili. Essere arrivato a questa consapevolezza, aiutato dal mio tutor Francesco Di Gennaro, rappresenta una mia grande conquista personale e professionale».

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