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La rete Sism nelle università: una pista diretta con l’Africa

La testimonianza di Elena Altieri, pediatra all’ospedale di Beira, in passato Junior Project Officer durante il percorso universitario a Torino.

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    «Sono una pediatra di 34 anni, ho conosciuto il Cuamm all’Università tramite il Sism, il Segretariato Italiano Studenti in Medicina. Sono partita per sei mesi come Junior Project Officer a Tosamaganga, quando ero specializzanda a Torino nel 2018. Un’esperienza positiva, tanto che sono rientrata con un forte desiderio di ripartire, rimandato per un po’. Terminata la specializzazione, ho lavorato due anni in Italia, poi, finalmente, nel luglio scorso, sono tornata in Africa. Questa volta a Beira, in Mozambico, dove rimarrò per un anno. Sono rientrata soltanto momentaneamente per adempimenti amministrativi.

    Il primo impatto a Beira non è stato semplice, molto diversa da Tosamaganga: qui mi trovo in un contesto urbano, è la seconda città del Mozambico e lavoro in un ospedale universitario con una dinamica complessa, numeri notevoli e staff sia locale sia proveniente da altri Paesi. Una realtà stimolante, in cui c’è l’opportunità di confrontarsi anche con il personale in formazione, medico e infermieristico. Sicuramente, una grande sfida, perché c’è un immenso bisogno, ma nonostante la maggiore disponibilità di farmaci e di apparecchiature rispetto ad altre strutture sanitarie rurali, la mortalità pediatrica e neonatale resta elevata. Anche perché, essendo un ospedale di riferimento, c’è una concentrazione molto alta di bambini critici, che arrivano da ogni parte del Paese.

    Il primo passo da fare quando si arriva è imparare la lingua portoghese, fondamentale per instaurare una buona relazione con i locali. Lavorando prevalentemente in Neonatologia, non c’è il problema di parlare con i piccoli pazienti, ma emerge, soprattutto, la difficoltà di dialogare con le mamme. Devo dire, però, che in breve tempo abbiamo imparato a comunicare, io mi scuso se il mio portoghese non è perfetto, ma le mamme mi ringraziano, dicendo che mi capiscono.

    La possibilità di stare lì per un anno consente di dedicare i primi mesi all’osservazione, perché per inserirsi in un contesto così ci vuole la pazienza di conoscere e farsi conoscere. Sono contenta di essere riuscita a creare buone relazioni con i colleghi locali. Un punto di partenza essenziale per il lavoro successivo. Ho trovato lo scambio con loro arricchente. Noi arriviamo con delle competenze, ma loro ne hanno altre su aspetti che noi non conosciamo, perché le patologie sono differenti e così il contesto. Si crea un rapporto di scambio reciproco.

    Le soddisfazioni più grandi sono i neonati che, dopo un lungo ricovero e anche diversi momenti critici, riescono ad andare a casa assieme alle loro mamme. Ci si chiede come farà mai un piccolo di 700 grammi a sopravvivere. Adesso uno degli ultimi prematuri che ho seguito prima del mio breve ritorno in Italia stava reagendo molto bene. Dopo la terapia intensiva, finalmente era andato in braccio alla mamma. Spero di ritrovarlo al mio ritorno cresciuto e pronto per andare a casa! Sono lunghi i ricoveri di questi piccolissimi, in media di oltre un mese, il tempo necessario per raggiungere il peso di almeno un chilo e mezzo, il minimo per la dimissione. Quando inizia la fase di kangaroo è meraviglioso: una risorsa fantastica che permette ai bambini di sopravvivere in questi contesti difficili, stando sul petto della mamma, riscaldati dal suo calore. La mortalità neonatale è ancora altissima, per questo i piccoli guerrieri che ce la fanno sono una grande gioia».

    Quello che non si vede…

    «Tante volte ci viene da dire: ma perché ci sono tutte queste difficoltà a migliorare le cose? Incontrando un gruppo di studenti, ho detto loro: “Voi siete quelli che potranno cambiare, siete il futuro di questi ospedali”. Il fatto di avere incontrato giovani motivati, curiosi, mi pare come un seme di miglioramento.

    Per il mio ritorno a Beira ho tante idee. Vorrei che ogni problema fosse uno stimolo per trovare soluzioni. Non so quali si realizzeranno, ma quello che spero è di iniziare un cammino insieme, a partire dalle piccole cose. Vorrei sapere dai colleghi qual è il problema che ritengono più grande, per capire se insieme possiamo pensare a cosa fare per migliorare la situazione.

    Si vedono ancora bambini vittime della medicina tradizionale. Quando succede, mi ricorda quanto sia importante lavorare con loro, che conoscono cultura e usanze del proprio Paese. La speranza è che anche gli infermieri che ci vedono impegnati quotidianamente insieme con loro trovino quella motivazione che a volte sembra mancare. Spero che capiscano quanto il loro impegno è prezioso. Senza di loro non si va avanti!».

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