Etiopia: mani tese, oltre l’emergenza
Un’estate di pesanti alluvioni in Etiopia. Danni devastanti nella South West Shoa Zone, migliaia di persone costrette ad abbandonare le proprie case mentre l’acqua ha distrutto raccolti e ucciso bestiame.

Tra giugno e agosto, le inondazioni causate dalla piena del fiume Awash hanno provocato devastanti danni nelle zone di West e Southwest Shewa. Da allora, migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case mentre la forza dell’acqua ha distrutto raccolti, ucciso bestiame e lasciato intere comunità in urgente bisogno di assistenza.
«Il fiume Awash ha inondato la nostra comunità nelle prime ore del mattino», ricorda Lamecha Kuma, una donna di Warirso Balina Kebele. «Il giorno successivo abbiamo attraversato le acque per avvisare le autorità. La popolazione è stata evacuata verso la città di Teji in barca — ci è voluto una settimana per mettere tutti al sicuro ma poi le inondazioni sono tornate in agosto, ancora più violente, distruggendo quel poco che restava e uccidendo i nostri animali».
In stretta collaborazione con le autorità sanitarie locali, i nostri team hanno individuato i bisogni più urgenti e continuano a supportare la popolazione. Abbiamo infatti distribuito sin dalle prime ore farmaci, soluzioni reidratanti, forniture mediche e kit per l’igiene—strumenti fondamentali per prevenire epidemie di malattie trasmesse dall’acqua, come il colera, uno dei rischi maggiori dopo le inondazioni.
Nei distretti di Ilu, Sabata Awas, and Dawo, si contano circa 25.000 persone sfollate, che hanno trovato rifugio nel compound di una scuola secondaria locale. Quasi 10.000 provengono dai villaggi di Mulu Setey and Wererso Kelina, dove quasi il 90% della popolazione ha dovuto lasciare le proprie case. Molti di loro sono parte di comunità nomadi o semi-nomadi, pastori che hanno perso tutto.
«L’alluvione ha devastato la nostra comunità», racconta Gete Dhabata di Wererso Kelina. «I più vulnerabili—donne incinte, anziani e bambini—hanno sofferto di più. Molti si sono ammalati e il cibo era poco. Quasi tutti i nostri animali sono morti e le terre coltivate, la nostra unica fonte di sostentamento, sono state completamente distrutte. Non dimenticherò mai quel momento: l’acqua alta tutta intorno a me e mio fratello, malato, sulla schiena. Così ho raggiunto l’altra sponda e ci siamo messi in salvo».
C’è chi spera di poter rientrare a breve almeno nella propria terra, grazie al finire della stagione delle piogge, nel mese di settembre.
Oltre agli aiuti materiali, i sopravvissuti e le famiglie sfollate hanno ricevuto, e continuano a ricevere, supporto psicosociale attraverso i Tea Talks — spazi sicuri in cui condividere esperienze, elaborare il trauma e trovare la forza per ricominciare.
Ora che le famiglie stanno lentamente tornando nei loro villaggi, ripartire resta una sfida che porta con sé paura e consapevolezza: quella che questo incubo accadrà di nuovo.
«La vita resta dura per noi», spiega Chaltu, una donna di Wererso Kelina. «Il cibo scarseggia e gli animali sopravvissuti sono pochi. Non abbiamo soldi per i beni essenziali come cibo, pannolini o vestiti per i bambini. Sapere che ci saranno altre alluvioni, che il fiume esonderà ancora, rende la vita davvero difficile. Eppure, sopravviviamo, passo dopo passo».
Questa emergenza non è infatti un evento isolato: in Etiopia le inondazioni si verificano con frequenza e intensità sempre maggiori, aggravando la vulnerabilità delle comunità colpite e mettendo a dura prova la capacità di risposta del sistema sanitario.