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Carissimi, desidero condividere con voi questa bella riflessione di Pier Luigi Vercesi, uscita su Corriere della Sera/Buone Notizie nei giorni scorsi. Sono parole che sentiamo vicine a quello che siamo, alle fatiche e alle difficoltà che viviamo ogni giorno in Africa. Raccontano la complessità di una situazione che purtroppo, talvolta, viene minimizzata o misconosciuta. Con

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    Carissimi,

    desidero condividere con voi questa bella riflessione di Pier Luigi Vercesi, uscita su Corriere della Sera/Buone Notizie nei giorni scorsi. Sono parole che sentiamo vicine a quello che siamo, alle fatiche e alle difficoltà che viviamo ogni giorno in Africa. Raccontano la complessità di una situazione che purtroppo, talvolta, viene minimizzata o misconosciuta. Con toni gentili e puntuali, viene posto l’accento sui gravi effetti che questa pandemia sta causando sulla popolazione e sui già debolissimi sistemi sanitari africani. Lì si concentrano i nostri sforzi, accanto al dolore dell’Africa che sta portando un fardello più pesante di quello che sembra, lì ci sono la nostra vita e il nostro impegno che continua grazie a quanti credono in noi.

    D. Dante

     

    Da Corriere della Sera/Buone Notizie del 22 gennaio 2022

    Covid, i vaccini in Africa e le nostre autoassoluzioni. Attenti agli effetti collaterali

    di Pier Luigi Vercesi

    Quante conclusioni sbagliate si possono trarre limitandosi a compulsare dati statistici, anche ufficiali, recuperati in Rete e pensando che consentano di interpretare la realtà come se fossimo a Berlino o a New York? Molte, se riguardano l’Africa, e drammatiche se si trasformano in un’autoassoluzione per aver spedito in alcune capitali del continente una quantità di vaccini nemmeno lontanamente paragonabile alle promesse: oltretutto vaccini spesso non riconosciuti, come quelli cinesi; e/o prossimi alla scadenza, rendendo impossibile programmare l’inoculazione. Se poi la spiegazione della mancata ecatombe africana è la «prorompente vitalità demografica» (dev’essere una formula politicamente corretta per dire che si muore giovani), precisando che l’età media delle popolazioni a sud del Sahara è di 20 anni contro i 43 dell’Europa, e il fatto che, «per fortuna», lì ci sono pochi obesi e affetti da diabete, si rasenta l’assurdo della storiella, vera o inventata, di dare le brioches a chi non ha il pane.Per chi ha un minimo di conoscenza di un continente vastissimo, per chi lo frequenta, come le organizzazioni umanitarie internazionali, le onlus che si occupano di salute e di sviluppo economico e le missioni religiose, quei dati non significano nulla. In Africa si muore e basta, per Aids, per malaria, per altre epidemie, a volte per infezioni che in Italia si curerebbero in tre giorni, per polmonite, che è la prima causa di morte nel continente da prima che si presentasse il Covid-19. Vogliamo anche sostenere che le strutture ospedaliere hanno retto meglio che da noi? Certo: o mancano o in tilt lo sono da sempre.Anzi, forse si sono alleggerite: da quando è scoppiata la pandemia gli africani che non appartengono alle classi privilegiate, vale a dire il 90% della popolazione, hanno smesso di rivolgersi agli ospedali, che sono pochi, male attrezzati e spesso lasciati al buon cuore di chi in Occidente «vive di pregiudizi» sulla grama vita che si conduce in Africa. Per fare solo un esempio tra i mille: la campagna del Cuamm – Medici con l’Africa per portare le donne a partorire in clinica ed evitare di morire di parto (la quantità di casi è impressionante) si è arrestata perché le madri hanno paura anche solo ad avvicinarsi all’ospedale. Il 39% degli africani non è disposto a farsi inoculare il vaccino, recita un’altra rilevazione statistica? Saranno ancora meno se continueremo a comunicare che tanto a loro non accade nulla. L’Africa poi, non dimentichiamolo, ha una stagionalità differente da quella dei Paesi temperati. I picchi di ricoveri in ospedale, segnala chi sta sul campo, si sono avuti tra maggio e giugno dello scorso anno, quando da noi calavano significativamente.Ma passiamo agli «effetti collaterali». In Africa la pandemia c’è come nel resto del mondo e sta facendo più morti per fame che per malattia (ma non consola). Non ci sono ristori, né cassa integrazione e la gente (immensamente tanta) che racimola l’equivalente di un dollaro al giorno ai bordi delle strade vendendo qualcosa perde anche quel sostentamento. Non è scattato nessun «riflesso pavloviano» quando abbiamo immaginato che, alla fine, il Continente Nero, chiamiamolo così, come si faceva una volta, ne avrebbe fatto le spese maggiori. Forse meno in termini assoluti, avendo tanto poco, ma molto in termini percentuali, quelli che si leggono nelle statistiche. Non è «l’automatismo umanitario del senso di colpa» a farci immaginare che jihadismo, conflitti etnici, corruzione e neocolonialismo guadagneranno ulteriore spazio in un continente allo sbando.È il parere di chi l’Africa la vive ogni giorno. Non si potrà nemmeno immaginare che, vedendo l’Europa così in difficoltà e l’Africa così statisticamente risparmiata dalla pandemia, le centinaia di migliaia di disperati che si gettano tra le braccia dei trafficanti di carne umana smetteranno di venire a bussare alla nostra porta. Spogliati dei nostri sensi di colpa e pensando al nostro, di futuro, non possiamo infine evitare di riflettere sulle parole di Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Humanitas. Tra le tante incertezze che accompagnano questa maledetta pandemia il professore solleva il forte sospetto che in soggetti con altre malattie, come l’Aids, diffuso in Africa più di quanto segnalino le statistiche, il virus possa prendere vie di mutazione che non siamo in grado di prevedere.

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