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Saper dire grazie, sempre

La testimonianza di Daniela Furlan, rientrata il 2 aprile da Wolisso, in Etiopia, dopo cinque mesi come Jpo nel reparto di Pediatria dell’ospedale.

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    Saper dire grazie, | sempre
    Daniela Furlan
    è rientrata il 2 aprile da Wolisso, in Etiopia, dopo cinque mesi come Jpo nel reparto di Pediatria dell’ospedale. «Non ho avuto ancora il tempo di rendermi conto, ma prevale il sentimento di gratitudine. È stata sicuramente un’esperienza “rocambolesca”, una montagna russa continua, ma il bilancio è positivo perché è stata una immersione a 360 gradi: mi ha dato tanto dal punto di vista personale, umano e professionale, anche se totalmente diversa da ciò che mi aspettavo».
    Da Silvia a Tariqua: un prezioso affiancamento
    «Come Jpo dovremmo essere seguite ed introdotte gradualmente al contatto. Silvia Palatron, la pediatra che c’era a Wolisso, per me è stata il più alto esempio di cooperazione. Lei affiancava il mio tutor di Pediatria. Ho cercati di fare mio quello che Silvia mi aveva trasmesso in due settimane per riuscire a farmi strada da sola e vivere in un ambiente nuovo e complesso. Mi è servito molto anche per creare relazioni ed entrare in empatia con persone del luogo. Tutto questo umanamente mi ha veramente arricchito. Mi sono dovuta scontrare con le difficoltà che poi mi hanno permesso di ricevere tanti frutti che non immaginavo ed è stato bellissimo. Rapporti che rimarranno e ne sono grata. Una persona che è stata fondamentale nella mia pratica quotidiana e nella mia routine è stata Tariqua, l’health officer che si occupa della malnutrizione a Wolisso. È stata un punto di riferimento importantissimo. Quando si dovevano trattare patologie che in Italia non vediamo, avere lei come guida è stato importante e abbiamo creato un rapporto profondo di stima reciproca e di rispetto».

    Imparare a confrontarsi con l’emergenza Coronavirus
    «In ospedale avevamo già iniziato ad organizzarci per dare il materiale di protezione al personale e le informazioni rispetto a Covid. Sono stati allertati fin dall’inizio e periodicamente abbiamo affrontato la questione cercando di capire quale fosse la migliore modalità da seguire. Abbiamo elaborato un piano di sicurezza interna con regole anche per il nostro comportamento. C’era un clima molto unito e ci siamo fatti forza a vicenda, adottando un atteggiamento di cautela, indossando i dispositivi di protezione, attuando il social distancing. Era stata predisposta una tenda prima del triage con annesso isolamento e rese note le linee guida su come gestire in caso di potenziale arrivo. Quando la popolazione ha iniziato ad avvertire questo potenziale pericolo, ha cambiato le abitudini repentinamente, autolimitandosi. E seguendo con diligenza le misure del governo. Hanno iniziato a vederci però in maniera sospetta: le persone erano più schive e caute nell’interazione fisica. Ricordo una volta che mi ha “gelata”: camminando in ospedale, ho salutato un infermiere che conoscevo mettendogli una mano sulla spalla e lui si è girato dicendomi: “don’t touch me”».

    Trovare l’emergenza in Italia
    «Sì, una situazione surreale: la desolazione delle strade, delle città è impressionante. A Napoli c’è un approccio al contatto molto spontaneo, naturale, molto fisico. Passare da questo all’isolamento, è stato forte. Non puoi manifestare e condividere quello che ti porti da questa esperienza, in nessun modo, perché occorre mantenere le distanze e a parole spesso non puoi descrivere quello che provi. Sarebbe più facile con un abbraccio e questo non è stato possibile nemmeno con la mia famiglia con la quale ci abbracciamo con gli occhi. Mi sento con un carico emotivo pesante che non posso esprimere e questo non mi aiuta a mettere tutto sotto la giusta luce per poter elaborare. Riprenderò servizio dopo questa quarantena e non vedo l’ora perché non posso non fare il medico. La parola che più mi accompagna è grazie, ameseginalew in amarico, galatooma in oromifa, per tutto quello che ho ricevuto».

    Luoghi: