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La strada che porta ad Aber

La testimonianza di Giulia Mascia volontaria in Servizio civile universale da poco arrivata ad Aber in un Uganda dove trascorrerà il suo anno di servizio.

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    L’ultimo tratto di strada che collega la Kampala-Gulu Highway, la lunga autostrada che attraversa il paese da sud a nord, con l’Ospedale di Aber, nel distretto di Oyam, la nostra destinazione, è uno stretto lembo di terra sterrato e polveroso, difficilmente percorribile con l’automobile, che nelle ultime settimane è stato occupato da alti cumuli di terra posti ordinatamente in fila indiana uno dopo l’altro ad invadere circa i due terzi della carreggiata.

    Questi ultimi, momentaneamente “appoggiati” sulla strada verranno poi, in un arco di tempo imprecisato, livellati ad una stessa altezza così da coprire le buche e migliorare la viabilità della strada. Per ora, ostruiscono pericolosamente il passaggio delle automobili ma soprattutto delle ambulanze conferendo all’ospedale l’immagine di un posto remoto, nascosto nella natura ugandese.

    E così non ho potuto fare a meno di pensare, come prima riflessione della mia esperienza in Uganda, a quanta fortuna avessi ad entrare in quell’ospedale per la prima volta comodamente seduta sul fuoristrada 4X4 del Cuamm come civilista e non su un’ambulanza, magari ferita o in procinto di partorire.

    Una volta varcato il cancello mi si sono aperte le porte di una piccola comunità viva e autonoma e mi sono persa tra i sorrisi delle tante donne in attesa davanti al reparto maternità. Quelle donne non mostravano alcun segno di sofferenza o disagio, sembravano anzi serene e grate di essere lì.

    Da qualche tempo l’entrata principale dell’ospedale è chiusa per ristrutturazione e il destino ha quindi voluto che fossimo costretti a entrare dal cancello secondario che da, appunto, sul reparto maternità. Vedere i sorrisi di quelle donne, dalla più giovani (forse troppo giovani) alle più anziane (magari non così anziane come potevano sembrarmi) rispondere al mio stentato tentativo di saluto mentre con mille valigie scendevo dalla macchina del Cuamm mi è sembrata una perfetta immagine da copertina, e un regalo del destino, per iniziare questa avventura.

    All’interno dell’ospedale c’è un microcosmo ed è incredibile come anche la vita al di fuori delle quattro lunghe mura che ne definiscono il perimetro ruoti attorno a questo grosso centro di vita e purtroppo, spesso, anche di morte.

    Ad Aber “città” non c’è una vera e propria città, ci sono due strade, vari negozietti che vendono alimenti di prima necessità tutti rigorosamente delle stesse marche e provenienti dallo stesso fornitore, il monopolio dell’uomo del chapati (la piadina locale) e dei rolex (la piadina locale con dentro una frittata condita con pomodoro cipolla e litri di olio), un piccolo spaccio di farmaci, alcuni baracchini che arrostiscono la carne e, tra una struttura in muratura fatiscente e un’altra, qualche tipica capanna africana nascosta dietro la via principale.

    Davanti all’ospedale un enorme campo da calcio improvvisato dove giovani medici specializzandi e i bambini di Aber si ritrovano a giocare a calcio la sera con un pallone sgangherato. Quest’ultima rappresenta una delle principali attività della vita mondana di Aber.

    Da circa un mese, inoltre, il paese è stato colpito da una seconda, più violenta, ondata di Covid-19 e i casi di persone ricoverate o decedute sono aumentati in modo esponenziale. Questo ha portato il presidente Yoweri Museveni a dichiarare un secondo totale lockdown con divieto assoluto di spostamenti per i mezzi privati, regola che ha messo in crisi i residenti, i lavoratori e tutti noi.

    Anche per colpa dei terribili effetti di questa pandemia e del lockdown, la vita si svolge, per ora, esclusivamente all’interno delle mura dell’ospedale che, alcuni giorni, si fanno opprimenti e minuscole e ti costringono a una condizione di cattività inaspettata.

    Al di fuori la felicità la si trova nelle piccole cose: nei fagotti di stoffa locale colorata dove dormono sereni i minuscoli bambini appena nati, nei sorrisi e nella gratitudine della gente, nella condivisione di un pezzo di carne locale arrostita alla brace e nella speranza di un futuro migliore per questo posto, per questa gente e per questo paese.