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Fare l’ostetrica in Sierra Leone

La Sierra Leone, con un tasso di mortalità materna tra i più alti al mondo, è uno dei contesti più fragili in cui partorire: per la Giornata Mondiale dell’Ostetrica ne abbiamo parlato insieme a Elisabetta Ragaini, ostetrica Cuamm, appena rientrata da Freetown.

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    Gestire la mancanza di acqua, fare turni estenuanti ogni giorno, lavorare in spazi angusti, assistere 8.300 parti all’anno, far fronte a difficili complicanze ostetriche avendo a disposizione pochi mezzi. Essere ostetrica in Africa è una grande sfida, ma significa fare la differenza tra la vita e la morte. Ce lo racconta Elisabetta Ragaini, ostetrica Cuamm, appena rientrata da Freetown, dove ha svolto un anno di servizio al Princess Christian Maternity Hospital, la più importante maternità del Paese. In Sierra Leone si è confrontata con una realtà molto complessa e, nel corso del tempo, ha dovuto affrontare difficoltà che all’inizio le sembravano insormontabili. Ma tirando le somme di quest’anno lontano da casa, parla di questa esperienza con grande nostalgia e altrettanto entusiasmo.

     

    Sei appena rientrata da Freetown, come è stato il viaggio di ritorno verso l’Italia?

    Sono appena rientrata ad Ancona, dove vivo con il mio compagno, è stato un viaggio di ritorno un po’ surreale. Ora sono a casa, in isolamento fiduciario per 14 giorni, come tutte le persone che arrivano dall’estero.

     

    Come hai vissuto quest’anno di servizio in Sierra Leone?

    Per me è stata un’esperienza meravigliosa. Certo, ho trascorso un anno intenso ma mi ha resa consapevole di un’altra parte di mondo. Avevo già lavorato in Tanzania, e posso dire che ogni paese africano è diverso. Ho trascorso un anno della mia vita confrontandomi e facendo squadra con le mie colleghe, non sempre è stato facile, ma sono felice di aver fatto parte del team del PCMH!

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    Quali sono state le difficoltà più grandi che hai incontrato nello svolgere il tuo lavoro?

    Una fra tutte, la mancanza di acqua in sala parto. All’inizio mi sono arrabbiata molto per questo e ho fatto la mia parte per risolvere il problema, come portavoce delle richieste delle mie colleghe per migliorare le condizioni di sicurezza del nostro lavoro e delle partorienti.La sala parto al PCMH è molto piccola, lavorano in 6 persone contemporaneamente. In questo spazio avvengono 8.300 parti all’anno, cioè 24 parti al giorno, sono tantissimi. Senza acqua non è possibile garantire un’adeguata igiene sia per lo staff che per le pazienti, che in questo modo sono ancora più a rischio, perché le infezioni sono all’ordine del giorno.

     

    Cosa può fare concretamente un’ostetrica in Africa?

    Un’ostetrica in Africa può essere davvero d’aiuto, non solo durante i parti, che sono tantissimi, vista la numerosità della popolazione. Io, per esempio, ero a sostegno del personale locale e cercavo di dare degli input in modo che piccole cose, nel tempo, potessero migliorare soprattutto nei processi. Mi occupavo di fare formazione alle mie colleghe, anche di altre reparti, per condividere nozioni teoriche e pratiche su possibili complicanze ostetriche, come ad esempio l’eclampsia e le emorragie post partum.  Un’altra attività molto utile di cui mi occupavo era l‘analisi delle morti materne di donne in gravidanza che morivano al PCMH dopo un’ora dall’arrivo da altre strutture sanitarie, era importante capire il motivo dei decessi andando a ritroso, nel loro percorso clinico.

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    Come avete riorganizzato le attività programmate per mamme e bambini con la pandemia in corso?

    Il PCMH è stato chiuso per una settimana per fare una sanificazione, perché uno dei portieri dell’ospedale è risultato positivo al Coronavirus. Fino a quando ho lavorato lì, il Cuamm aveva organizzato una tenda solo per le donne in gravidanza e per le neomamme, dove le infermiere/ostetriche facevano un primo triage alle pazienti che presentano sintomi da Coronavirus e qui venivano trattenute se erano “casi sospetti” fino al momento del risultato del tampone. 

     

    Qual è il tuo timore per mamme e bambini se scoppiasse l’epidemia in Africa?

    Nell’ultimo periodo sono calati gli accessi al PCMH da parte di mamme in gravidanza e in travaglio, per paura del contagio. Ricordo una mamma che è entrata dal cancello dell’ospedale ma si è rifiutata di partorire all’interno della struttura e ha voluto restare all’esterno, dove una nostra infermiera le ha dato una prima assistenza, prima di portarla, insieme al suo bambino appena nato, nel pronto soccorso.

     

    Tra poco è la Festa della Mamma, se dovessi dedicare un augurio alle mamme, quale sarebbe?

    Il mio augurio è di aiutare le donne ad essere più consapevoli dei propri diritti, del proprio corpo, di cosa sono il parto e il travaglio. Si potrebbe avere un impatto maggiore se anche noi ostetriche potessimo visitare le comunità sul campo per sensibilizzare le donne trasmettendo loro importanti nozioni sull’igiene di base, ma anche sull’educazione sessuale. Mi sono resa conto di quanto, appena arrivata in Sierra Leone, ho dato per scontato molte cose che in Africa non lo sono per nulla. La donazione del sangue, ad esempio, è una pratica non compresa, non diffusa, più volte ho dovuto convincere i familiari di un paziente a rendersi disponibili per una trasfusione per salvargli la vita.

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