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Medicina rurale ai margini

La distanza non si misura solamente in chilometri ma in opportunità, servizi e accessibilità. A venti chilometri da Wolisso, i team Cuamm hanno portato cure a chi troppo spesso è dimenticato. Dall’Etiopia, la testimonianza di Carlo Airola, Jpo in medicina interna.

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    La partenza dal st. Luke Hospital di Wolisso è prevista di buon’ora. All’una etiope. L’ora di un popolo abituato a dare grande importanza alla luce del sole, per questo le ore si contano dal sorgere del sole. Sono quindi le 7 ora occidentale quando la toyota land cruiser guidata da Hagos lascia l’ospedale. Nella macchina oltre a 3 medici Jpo del Cuamm, ci sono anche uno studente Sism, sister Martha e sister Marie Rein con 2 infermieri, Benjamin, dal St. Luke, e Wase, da Gambella. La prima tappa è la comunità di Padre Joseph a Goro. Un padre missionario indiano del Kerala, in Etiopia da 4 anni. E’ lui che sta cercando di migliorare lo sviluppo di alcuni villaggi della regione. Ci accoglie a braccia aperte nel bellissimo chiostro della missione, arricchito da piante provenienti da tutto il mondo. Ci spiega brevemente il significato del progetto. Il tempo di assaggiare alcuni chicchi d’uva fragola appena colti dal pergolato del giardino, e ritorniamo sul fuoristrada accompagnati anche da Emanuel, un altro padre indiano confratello di Joseph, che saranno le nostre guide per la giornata. Lasciamo Goro in direzione ovest.

    Sulla via dissestata gli unici mezzi motorizzati sono i nostri fuoristrada e una motocicletta che sembra scortarci fino a destinazione.

    Dopo circa 20 km di salti e scuotimenti e ben più di un’ora di viaggio, raggiungiamo la destinazione finale, Galiye Rogda, uno dei cinque villaggi abitati da una popolazione che per lingua, tradizioni e caratteristiche somatiche, ha poco da spartire con gli altri abitanti della regione.

    Forse non è proprio l’ultimo miglio, storico vanto dell’attività di cooperazione del Cuamm, ma è comunque a molte miglia di distanza dalla strada principale e dai servizi che potremmo considerare indispensabili a garantire il benessere fisico, mentale e sociale di ogni essere umano. Servizi che presto, a causa della stagione delle piogge, saranno ancora più irraggiungibili per le popolazioni locali.

    Nella campagna dell’altipiano il villaggio compare all’improvviso, un gruppo di capanne circolari di legno, paglia e fango immerse in una distesa di campi di un marrone scuro che indica la stagione dell’aratura. Il silenzio è assoluto. In primo piano tutto sembra immobile, fotografato nelle corte ombre del sole equatoriale. Ma la vita scorre e il suo ritmo si manifesta, sullo sfondo, con il lento e costante incedere dei buoi che trainano gli aratri di legno.

    Ad aspettarci, di fronte alla scuoletta in lamiera adibita ad ambulatorio, un gruppo di bambini curiosi e fieri, accompagnati da alcune donne che li tengono d’occhio da poco distante. Gli uomini, tutti contadini, sono nei campi. Presto, appena giungerà la voce dell’arrivo dei medici, abbandoneranno il loro lavoro per confluire verso la nostra postazione.

    Non è la prima volta in cui dei medici della “città” arrivano al villaggio. Anzi, negli ultimi sei mesi, padre Joseph e la sua confraternita, hanno già organizzato due eventi simili. Il nostro arrivo viene però visto con curiosità e diffidenza. I bambini ci fissano incuriositi a debita distanza, e appena incrociano il nostro sguardo, distolgono il loro. Alcuni si nascondono. I più piccoli piangono, protetti dai più grandi. Qualcuno si spinge a toccarci, per poi scappare dietro le donne, che, in disparte, sorridono.

    Alcuni minuti dopo l’incontro iniziale, le persone iniziano ad affluire. Bisogna iniziare le visite. All’interno della scuoletta tre postazioni mediche sono pronte. Medico e infermiere affiancati, con fonendoscopio, penna, saturimetro, sfigmomanometro, un ecografo portatile.

    La coda di fronte a ogni postazione cresce. L’afflusso è magistralmente gestito dal padre missionario e da due suore di un vicino health center che si sono silenziosamente unite alla nostra comitiva. Dalla scrivania di Costanza, pediatra, si estende una fitta e ordinata fila di bambini, uno addossato all’altro, tutti stringendo nella mano un foglietto, su cui verrà scritta la prescrizione del farmaco a seconda del sintomo lamentato. Le nostre poche parole di oromiffa ci permettono di capire spesso il problema principale. Gli infermieri sono comunque sempre pronti a intervenire in nostro aiuto in amarico.

    Mal di testa, nausea, tosse, mal di pancia, vomito, diarrea, stanchezza, fiato corto. Alcune ferite da medicare. Tanti bambini sono malnutriti.

    “A me fa male tutto il corpo da due anni” “lo so, lavori troppo”. Si ride anche.

    Non sempre è possibile fare una diagnosi accurata. Ma tutti escono con la loro prescrizione compilata. Chi un antidolorifico, chi un integratore vitaminico o di ferro, un antielmintico, solo pochi con un antibiotico o una terapia corticosteroidea. Fuori dalla scuola/ambulatorio, le suore dispensano a ognuno il farmaco prescritto.

    Non tutti sono pienamente soddisfatti, qualcuno magari avrebbe voluto essere ascoltato di più, meno frettolosamente, non si sente capito. E forse capito non lo è stato. Il suo problema di salute magari dovrà trovare altre soluzioni. La medicina rurale è anche questo. Problemi complessi. Pochissime risorse. Interpretazioni, a volte giuste a volte sbagliate. A volte soluzioni a breve termine.

    La maggior parte degli aspiranti pazienti sembra però appagata da questo fugace incontro. Aspettavamo 300 persone, ne sono arrivate poche meno. Quando la folla inizia a diradarsi e gli ultimi ritardatari si affacciano alla porta di lamiera, il sole è già oltre lo zenit. Dopodiché l’ambulatorio chiude. I pazienti sono finiti. Ci guardiamo tutti negli occhi. Una risata. Non ancora pienamente coscienti di ciò che abbiamo vissuto. Non è comunque questo il momento di rielaborare le emozioni. Raccogliamo i nostri strumenti e si riparte per Wolisso.

    La consapevolezza non è quella di aver dato un grande contributo medico, ma forse un piccolo passo per abbattere il muro che separa la città e la campagna, contro la tendenza all’abbandono delle aree rurali, in uno Stato in cui le principali risorse economiche sono sfruttate per costruire palazzi e abbellire i ricchi viali alberati della capitale. Forse un piccolo gesto da parte di chi ha più privilegi nei confronti di chi ne ha meno, o non ne ha, sposta l’attenzione e mette al centro, per un istante, individui e comunità per cui, molto spesso, la normalità è essere dimenticati. Il ritorno a Wolisso, che fino a poche settimane fa consideravamo centro rurale sperduto nella campagna etiope, si accompagna alla sensazione dell’ingresso in una caotica metropoli, ricordandoci come la vita sia spesso una questione di punti di vista.