Cabo Delgado, prendersi cura del trauma dello sfollamento
Il racconto di Elisa, psicologa Cuamm a Cabo Delgado: dopo lo sfollamento, oggi trasforma la propria cicatrice in cura, accanto a tante donne vittime di violenza
«Chi vive l’esperienza dello sfollamento, chi si trova costretto a lasciare tutto, porta con sé una cicatrice. La mia, dopotutto, oggi mi permette di fare al meglio il mio lavoro qui, tra gli sfollati di Cabo Delgado».
Elisa Tembe, psicologa Cuamm a Cabo Delgado, in Mozambico, lavora ogni giorno con chi ha perso tutto. Donne, uomini, bambini e bambine che a causa delle violenze scoppiate ormai nel 2017, hanno dovuto abbandonare le proprie case e la propria terra. Secondo dati Unhcr, dall’inizio degli attacchi sono 1,3 milioni gli sfollati interni – un terzo della popolazione totale di Cabo Delgado mentre solo nel 2025, l’intensificarsi delle violenze per mano dei gruppi armati ha provocato lo sfollamento forzato di oltre 250.000 persone. A questi, si aggiungono le 6.000 vittime di una crisi protratta e dimenticata.
«Lasciare un luogo che si considera casa è un’esperienza traumatica. L’impatto emotivo e psicologico è grande. Molte persone vanno avanti aspettando il momento di poter fare ritorno nel proprio luogo di origine, altri ci provano più e più volte» ci ha detto Elisa.
Anche lei conosce il dolore di chi si è lasciato alle spalle tutto e il trauma di dover immaginare una vita nuova, in un luogo che non è casa. Le è successo quando, nel 2020, per paura degli attacchi ha abbandonato il distretto di Macomia, dove viveva con i suoi due figli ed è arrivata a Montepuez. Accolta da alcuni familiari, Elisa ha iniziato a ricostruire la sua vita.
«Quando ho iniziato a lavorare con persone che avevano vissuto la mia stessa esperienza, mi sono resa conto della fortuna che avevo avuto e di quanto fosse stato salvifico, per me, avere avuto intorno amici e familiari. Ricevere supporto in una condizione di disperazione è fondamentale, sentirsi visti e ascoltati può davvero fare la differenza».
Oggi Elisa lavora nel team Cuamm di Cabo Delgado, vive e lavora a Pemba dove gestisce un progetto sulla violenza di genere finanziato da Unhcr, l’Agenzia delle nazioni unite per i rifugiati. L’esperienza personale, la formazione in psicologia e l’educazione familiare ricevuta sin da bambina le permettono di fare al meglio il suo lavoro, contando sulla fiducia e la stima di chi ogni giorno è sul campo al suo fianco e delle persone che assiste, sfollati interni e non solo.
Lo sfollamento forzato ha infatti un peso spesso invisibile sulle comunità ospitanti. La pressione su risorse e servizi (acqua, cibo, alloggi, sanità), l’impatto economico (mercato del lavoro, costi sociali), le tensioni sociali e culturali (conflitti, xenofobia), e il deterioramento delle infrastrutture e dei mezzi di sussistenza locali, aggravano una situazione già di partenza fragile e creano nuove vulnerabilità per tutti rendendo necessari interventi integrati.
«A Cabo Delgado tutti hanno bisogno di sostegno. Lo sfollamento colpisce l’intera comunità su larga scala ma ogni persona reagisce in modo diverso al trauma. Ogni individuo trova la propria resilienza e il proprio modo di applicarla. Con il nostro intervento proviamo ad offrire supporto affinché la comunità possa sostenersi reciprocamente».
Nell’ambito dell’intervento che Elisa gestisce come Project Manager, si lavora sulla componente psicologica e legale grazie ad un gruppo multidisciplinare composto da psicologi, assistenti legali e attivisti comunitari. Ad attività di supporto psicologico e legale, sensibilizzazione ed educazione, si aggiunge poi una componente formativa. Attraverso attività pratiche come quelle di falegnameria e cucina, e corsi di formazione professionale, il progetto mira a favorire l’indipendenza economica e la piccola imprenditoria.
In occasione della cerimonia organizzata a Maputo per i 75 anni dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati e i 50 di indipendenza del Mozambico, Elisa ha condiviso la sua storia, l’impegno che porta avanti insieme al team Cuamm e la speranza che nutre per il futuro: che queste comunità diventino capaci di gestire autonomamente le sfide che verranno e che ogni persona possa essere libera di vivere dove si sente a casa.