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Quando sono i malati a chiedere il trattamento significa che abbiamo raggiunto un piccolo grande obiettivo. Roberta Novara, Junior Project Officer ad Aber, ha contribuito ad una ricerca sulla malaria in gravidanza.

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    «Possiamo partecipare allo screening sulla malaria in gravidanza?». È questa la maggiore gratificazione di Roberta, Junior Project Officer appena tornata da sei mesi ad Aber dove, assieme alle ostetriche ugandesi, si è dedicata ad una campagna di prevenzione e di cura della malaria nelle donne che aspettano di diventare mamme. «Sono partita come Jpo in Malattie infettive e tropicali – spiega Roberta – per svolgere, principalmente, attività di ricerca con l’Università degli Studi di Bari. Ho lavorato nella clinica antenatale di Aber e mi sono occupata di spiegare il progetto di ricerca ERASE – Rise against malaria project – Supporto alla prevenzione, diagnosi e trattamento della malaria nel contesto della pandemia di Covid-19 alle future mamme, in attesa delle visite prenatali, sempre con l’aiuto degli operatori locali che conoscono la lingua. Se, poi, le giovani donne avessero aderito al programma, sarebbe stato prelevato loro un campione per il test della malaria. Se positive, valutavamo la migliore terapia possibile. Buona parte delle pazienti che sono risultate positive all’esame non presentavano alcun sintomo, oppure avevano sintomi non specifici, che difficilmente potevano essere ricondotti alla malaria.

    All’inizio noi operatori, con impegno, cercavamo di coinvolgere le mamme ed invitarle a fare lo screening. Dopo i primi mesi, invece, erano le stesse donne a cercare noi per aderire al trattamento. Alcune ostetriche erano state individuate come assistenti alla ricerca, occupandosi di descrivere lo sviluppo e l’obiettivo della campagna ed evidenziando come fosse necessario venire ad ogni visita prenatale. A parte rari casi persi in follow-up, la maggior parte delle mamme tornava ad ogni visita e veniva sottoposta a screening ogni volta; apparivano contente quando vedevano noi Jpo presenti. Insieme, accompagnavamo la mamma nel reparto maternità. Pur non potendo comunicare nella stessa lingua, comprendevano che noi eravamo lì per loro. La malaria può essere un fattore di rischio grave sia per la mamma sia per il bambino, perciò l’esserci in una fase così delicata della vita è importante.

    Ricordo una mamma sieropositiva, abbandonata dal marito, con una figlia a carico e una seconda in arrivo. Senza nessuno al mondo che si prendesse cura di lei. “Non ha forza”, mi disse l’ostetrica, riferendosi a lei che stava per partorire. Che possiamo fare? Ho proposto: “Andiamo a prendere il tè con del ciapati”, un pane sottile, simile ad una piadina. E così abbiamo fatto! Questa mamma non possedeva niente, neanche una coperta per scaldare il nascituro. Così, sono andata al mercato e gliene ho comprata una, con l’aiuto di alcuni amici locali. Poi, è nata la bimba e la mamma le ha voluto dare il mio nome!

    Con i medici locali ho legato molto, in particolare con quelli che svolgevano il tirocinio, l’ultimo anno di Medicina, il loro anno di pratica, prima della laurea. Provenienti da diverse università dell’Uganda, vivevano dirimpetto la nostra casa. Ci vedevamo sempre a pranzo e abbiamo visto i Mondiali di calcio assieme. Non mi sono mai sentita sola ad Aber! Torno a casa con molta autostima rispetto alle capacità professionali, di lavoro in gruppo e di scelta».