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In prima linea con gratitudine

In occasione della Giornata mondiale dell’infermiere, il racconto di Maria Corina Virtuoso da Pujehun 

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    Gratitudine: è questa la parola che Maria Corina Virtuoso, infermiera civilista a Pujehun, in Sierra Leone, porta con sé dal suo anno di lavoro sul campo. Gratitudine per le piccole cose, per tutto il lavoro svolto, e soprattutto quello di squadra. Un mix grazie al quale, nonostante la scarsità di strumenti, si riesce a fare moltissimo. Anzi, in alcuni casi, si fanno i miracoli. È quello che ci racconta Maria, alla quale, in occasione della giornata mondiale dell’Infermiere, abbiamo chiesto cosa significhi questo lavoro per lei e cosa le ha insegnato aver svolto questa professione con il Cuamm, in Africa:

    «Fare l’infermiera qui significa potersi donare completamente. Io mi divido tra parte pediatrica e terapia intensiva, ma do una mano anche nel reparto di neonatologia e in quello della malnutrizione. Insomma, si cerca di essere dappertutto, di rendersi utili il più possibile, di reinventarsi su tutti i fronti. Qui siamo infermiere, ma all’occorrenza anche farmaciste, personale delle pulizie, di tutto. Qui ogni singola persona ricopre davvero un ruolo fondamentale».

    Maria è a Pujehun da quasi un anno. È arrivata lo scorso luglio e ripartirà a fine mese. Impossibile, ci dice, arrivare davvero preparati. Si possono collezionare infiniti racconti prima della partenza, si può credere di avere un quadro della situazione, ma la verità è che non si è mai pronti. Tante le situazioni drammatiche, che si uniscono all’altissima mortalità infantile e alle numerose patologie alle quali in Italia non si è abituati. Il lavoro da infermiera, però, dà la possibilità di coltivare bellissime relazioni con i pazienti e con le loro famiglie. Una vicinanza che scalda il cuore, soprattutto di fronte alle storie di guarigione.

    «Noi vediamo tanti bambini gravemente malati. Oltre alla malaria e alla tubercolosi, arrivano tanti piccoli pazienti con ustioni gravi. Molti di loro vengono da un villaggio vicino che si chiama Sahn Malen, dove vengono prodotti gli oli di palma. Questo fa sì che i genitori siano fuori tutto il giorno a lavorare e spesso i bambini rimangono a casa e si ustionano sul fuoco dove vengono messi i pentoloni per preparare gli oli. All’inizio è difficile, per loro sono la cattiva naturalmente, perché le medicazioni sono molto dolorose. Ma quando guariscono si instaura un rapporto bellissimo, sia con i bimbi che i genitori. Mi riempie il cuore di gratitudine vederli stare meglio e correre e giocare nel reparto».

    In Sierra Leone, racconta Maria, fare l’infermiera significa vivere una lotta continua con le poche risorse a disposizione. Nonostante si riesca a far tantissimo pur con il poco che si ha, molto spesso non è abbastanza, e lì subentra la frustrazione, l’amarezza. Ma sono tutti spunti di crescita, professionale e personale:

    «L’esperienza con il Cuamm mi ha fatto conoscere meglio me stessa e le mie risorse. A Pujehun, mi sono scoperta sia più fragile che più coraggiosa di quanto pensassi. Sentire di dare il proprio contributo in un contesto così isolato ti fa sentire utile, anche perché ogni aiuto è davvero fondamentale. Penso alla storia di Ibrahim, un bambino di appena 18 mesi che è arrivato da noi in una situazione davvero disperata. Era in coma, aveva una brutta malaria cerebrale, alla quale si aggiungeva l’essere positivo all’Hiv e un’intossicazione. Questo è un altro problema: i villaggi sono spesso piuttosto lontani dagli ospedali e i genitori le provano tutte prima di affrontare la strada o pagare un trasporto. Allora si ricorre alla medicina tradizionale, ma il risultato è che molti bambini ci arrivano intossicati a causa delle erbe che vengono utilizzate. Questo era il caso di Ibrahim. E se non ci fosse stato un lavoro di squadra incredibile, non saremmo riusciti a salvarlo. Ci siamo messi tutti in gioco, c’è stato un grande lavoro anche da parte del fisioterapista e con molta cura alla fine è uscito dal coma. È rinato. Questo è il più grande miracolo a cui ho assistito».

    Di Ibrahim, Maria conserva una tenerissima foto insieme, parte  di un puzzle che costruisce giorno per giorno, fotografando la gioia dei bambini e delle mamme al momento della dimissione dell’ospedale. Per ricordare non la malattia né la sofferenza, ma la rinascita che riempie gli occhi di chi torna a casa e che è frutto del duro lavoro compiuto giorno dopo giorno da tutto il personale sanitario e dalla dedizione di infermiere come lei.