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Un medico mozambicano per amico

La riflessione di Francesca Riello, Junior Project Officer in Pediatria all’ospedale di Beira, in Mozambico.

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    «Ho vissuto un’esperienza intensa e arricchente. Non è stato semplice, ma ho imparato tanto. Lo scoglio maggiore sono state le morti da affrontare. Troppi neonati a settimana, non al mese o all’anno, ma alla settimana, non ce la fanno. Cooperare con medici e infermieri mozambicani, che ogni giorno convivono con tutto ciò, mi ha aiutato a superare le difficoltà. All’inizio faticavo a comprendere il loro approccio nell’affrontare la malattia e il dolore, poi ho capito che non bisogna dimenticare che noi guardiamo tutto questo con occhi diversi, dall’esterno. Chi vive quotidianamente un contesto africano ha un altro punto di vista. Anche questo è imparare a lavorare con l’Africa.

    Il primo impatto è stato forte: capivo il portoghese, ma non lo avevo mai parlato sul campo. Il team ospedaliero, tuttavia, è stato paziente e non mi ha mai fatto sentire di peso. Sono due le figure di riferimento che non posso dimenticare: un medico specializzando mozambicano, Zucula, che mi ha insegnato, passo dopo passo, moltissimo. Poi, Patricia, una dottoressa con cui ho lavorato soltanto due mesi, ma che è diventata una vera amica. Con i colleghi locali ci si frequenta soprattutto al lavoro, invece grazie a lei sono entrata davvero in contatto con l’Africa».

    Quello che non si vede…

    «L’ospedale di Beira è una realtà grande e complessa. Secondo me, si vede come “l’essere con” faccia la differenza soprattutto nei piccoli ospedali rurali intorno alla città. I medici sono pochi, prevalgono figure sanitarie come i tecnici di salute, che vedono nella cooperazione non solo un aiuto pratico, ma anche un’opportunità di crescita.

    Ho visitato l’ospedale rurale di Nhamatanda, che conta 3.000 parti l’anno e dove ci sono solo due medici locali che coprono tutti i servizi, dall’assistenza alle donne gravide al pronto soccorso traumatologico, sostenuti da un chirurgo coreano e, appunto, dai tecnici di salute. Qui il rapporto tra colleghi è diretto, quotidiano e ci si rende conto concretamente di come, fatta insieme, ogni cosa possa funzionare meglio».

    Quello che non si vede…

    «È doloroso scorgere bambini che giocano e vivono in mezzo a cumuli di immondizia, a cui poi si dà fuoco per smaltirla. Fin da piccolissimi respirano questi fumi, che possono causare loro tumori. In Africa ci si ammala di malnutrizione, ma anche di cancro.

    Ricordo con affetto una giovane mamma, in ospedale per curare il figlioletto gravissimo, che proveniva dalla campagna lontana e parlava un dialetto che neppure i miei colleghi mozambicani conoscevano. Nonostante ciò, siamo entrate in sintonia: un po’ in portoghese, un po’ in italiano e anche con il linguaggio non verbale, ottenevo le informazioni necessarie alla cura del paziente».

    Quello che non si vede…

    «Sono i bambini che si prendono cura di altri bambini. Perché in Africa si diventa grandi prima. All’ospedale di Beira ho seguito pazienti di 8-10 anni d’età, ricoverati in reparto, durante il giorno quasi sempre da soli, perché per i genitori dal lavoro dipende la vita, non possono permettersi di non andare. Ma alla sera tornavano sempre a trovare i propri piccoli. E i loro occhi si illuminavano!».

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