Rifugiati in Africa: chi resta, chi cura
In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, raccontiamo il nostro impegno al fianco dei milioni di rifugiati accolti da Uganda e Etiopia

Mentre in Europa si moltiplicano frontiere e barriere, nel 2024 il 73% dei rifugiati nel mondo ha trovato accoglienza nei Paesi a medio e basso reddito. Lo evidenzia l’ultimo rapporto UNHCR, pubblicato in vista della Giornata mondiale del rifugiato, che ogni anno – il 20 giugno – ricorda le vite sospese di chi è costretto a fuggire. Tra i paesi che accolgono di più c’è l’Uganda: con 1,8 milioni di rifugiati, è quinta al mondo e prima in Africa.
Qui, nel West Nile, la maggior parte delle persone proviene da Sud Sudan, Sudan e Repubblica Democratica del Congo.
“I conflitti sono in aumento, le persone continuano ad arrivare in situazioni di estremo bisogno e di emergenza”, racconta Joseph Katetemera, capo progetto Cuamm nella regione del West Nile. “L’Uganda mantiene le porte aperte, anche se i fondi stanno precipitando. Nei campi c’è un grave problema di sovraffollamento e i tagli Usaid hanno portato un grave, gravissimo sottofinanziamento. Le persone devono contare solo sulle proprie capacità per sopravvivere”.
Il Cuamm è intervenuto a supporto dei rifugiati nella regione dal 2022 fino a marzo 2025, quando si è concluso l’ultimo progetto. La priorità, offrire servizi di salute primaria, emergenze ostetriche e supporto psicosociale. Solo nell’ultimo anno, 2.777 donne hanno partorito in sicurezza, oltre 14.500 persone hanno ricevuto cure durante 100 outreach nei villaggi e 1.042 pazienti hanno avuto accesso a farmaci salvavita. Particolare attenzione è stata data alle persone con disabilità, con latrine accessibili, kit igienici e formazione inclusiva.
“Uno dei risultati principali che abbiamo ottenuto riguarda, credo, l’essere riusciti a operare più di 2.000 rifugiati, di cui oltre 600 diventati ciechi a causa della cataratta. La storia che più mi porto nel cuore è quella di una donna, Atizuyo Gladys, rimasta cieca per diciotto anni. A causa di questa malattia aveva perso tutto, anche il piccolo negozio che aveva avviato e con il quale riusciva a mantenersi. Era stata isolata dalla comunità, che credeva le avessero fatto un maleficio. Solo la famiglia e il marito non l’hanno mai abbandonata. Ricorderò sempre il giorno in cui ha recuperato la vista, dopo l’operazione: è il giorno in cui, per la prima volta, ha potuto vedere il volto dei suoi figli. Ha anche riaperto la sua piccola attività, grazie a una colletta fatta in suo sostegno”.
È un lieto fine che infonde speranza, in un Paese dove la situazione resta critica e la fatica inizia a farsi sentire. La pressione che non riguarda solo l’Uganda, ma anche altri Paesi, tra cui l’Etiopia. In particolare nella regione di Gambella, al confine con il Sud Sudan, dove la crisi è sempre più acuta. Cinque campi rifugiati accolgono oggi oltre 375.000 sud sudanesi, a cui si sono aggiunti 50.000 nuovi arrivi a causa dell’intensificarsi del conflitto.
“La situazione è veramente critica: stiamo cercando di ampliare i campi, perché le persone non ci stanno più”, spiega Daniel Frehun, area manager Cuamm a Gambella. I campi sono isolati, spesso lontani da fonti d’acqua e servizi. Eppure, anche qui Cuamm non si è tirata indietro. Attivo a Gambella dal 2018, Cuamm garantisce oggi servizi sanitari completi in due health post nel campo di Ngunyyiel, e collabora con le strutture comunitarie in altri tre campi. Le attività spaziano dalla promozione della salute alla prevenzione (vaccinazioni, screening nutrizionali) fino alla cura, con particolare attenzione a donne e bambini. Un’iniziativa chiave è rappresentata dai tea talk, incontri informali condotti da operatori sanitari comunitari – in gran parte rifugiati – per sensibilizzare le donne in età riproduttiva. “In questi momenti emergono proposte, si ascoltano le difficoltà, si costruisce fiducia”, racconta Daniel.
In un contesto segnato da emergenze sanitarie ricorrenti – dal colera alla recente epidemia di Mpox – la presenza di operatori formati e la continuità dell’impegno diventano fondamentali. “Molti partner ci stanno lasciando, ma noi restiamo. Anche con meno risorse, continuiamo a lavorare con la comunità, fianco a fianco”.
“Quello che più mi rimane impresso in questo viaggio di quattro anni al fianco dei rifugiati è la resilienza della loro umanità. Ho osservato sofferenze profonde, causate dalla povertà delle condizioni e dalle ripetute emergenze sanitarie. Eppure, non hanno mai smesso di mostrare forza, gratitudine, speranza. Addirittura una mamma, nel campo di Ngunyyiel, ha chiamato il figlio ‘Cuamm’, in segno di riconoscenza per le cure ricevute durante la gravidanza”.
E conclude con un messaggio che trascende numeri e statistiche:
“I rifugiati non sono solo vittime: sono madri, padri, bambini che hanno sognato, vissuto in pace, e che oggi portano avanti le loro comunità con dignità. Noi li vediamo, li ascoltiamo, e camminiamo con loro”.