Medici con l'Africa Cuamm

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Per una crescita condivisa

Silvia Baldissera, neolaureata in Ostetricia all’Università di Padova, racconta il periodo di tirocinio che ha svolto a Wolisso, in Etiopia, nell’ospedale in cui Medici con l’Africa Cuamm opera dal 2000.

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    Silvia Baldissera, neolaureata in Ostetricia all’Università di Padova, racconta il periodo di tirocinio che ha svolto a Wolisso, in Etiopia, nell’ospedale in cui Medici con l’Africa Cuamm opera dal 2000. Un percorso indimenticabile reso possibile grazie alla quinta edizione del Premio di laurea in memoria di Irma Battistuzzi, promossa dalla famiglia Benedetti in collaborazione con l’Associazione Alumni.

    «Desideravo da tempo vivere un’esperienza professionale e umana in Africa. Sono partita con la consapevolezza che due mesi sono pochi per conoscere un mondo, per questo ho cercato di captare tutto il possibile, ricambiando dando il massimo. Dopo la prima settimana di disorientamento, tra un ritmo differente rispetto a quello a cui ero abituata, le risorse limitate e un numero maggiore di partorienti da seguire, mi sono integrata serenamente. Ho trascorso ore in sala parto, cercando di capire sempre il perché di alcune pratiche. Tutte le azioni hanno una motivazione e sono contestualizzate all’ambiente dove ci troviamo. Anche in reparto chiedevo, spesso, ai colleghi come comunicare meglio con le pazienti, non tutte conoscono l’amarico, la lingua ufficiale del Paese. Oppure domandavo: “Posso vedere che cosa fai?” e devo dire che tutte le mie richieste sono state accolte e apprezzate. Dopo alcune settimane, ho iniziato a proporre, sempre in un’ottica di lavoro con l’Africa: “Io interverrei in questo modo, voi cosa ne pensate?”. Così, la crescita è condivisa: nessuno può imporre la propria idea, i professionisti locali lavorano per il bene della propria terra e noi operiamo con loro.

    Oggi, colleghi e amici italiani mi chiedono se ci sia differenza tra una sala parto etiope e una sala parto nel nostro Paese. Naturalmente, le differenze sono un elenco infinito, ma le esigenze degli ospedali sono differenti, la modalità di affrontare la gravidanza sono culturalmente lontane e fare un paragone sarebbe insensato.

    Ci sono stati episodi che mi hanno messo a dura prova, come il modo di reagire di fronte alla morte: in Africa si accetta, ma ci ho impiegato tanto tempo per capirlo. Sapevo nella teoria che era possibile scontrarsi con la morte di un bambino, ma quando ho assistito è stato difficile. I colleghi mi hanno aiutato, perché il loro è un approccio molto più naturale: “Doveva andare così, abbiamo dato il massimo. La natura ha il suo corso, possiamo impiegare tutte le tecniche del mondo, però arriviamo sempre fino ad un certo punto, non oltre”. Ho notato che in loro subentra il forte aspetto della spiritualità.

    Ricordo con piacere il primo parto podalico che ho seguito assieme al collega Sintayehu. Per loro, chiaramente, fa parte della normalità vedere un culetto che avanza, poi le gambine, un braccio, il disimpegno dell’altro braccio e poi la testa. L’unico mio movimento in tutto ciò è stato avanzare un’esclamazione di stupore: “Wooooow!”. 2.500 grammi che dopo poco hanno pianto!

    Venerdì, invece, era il mio giorno preferito: cleaning day! Si sfodera l’artiglieria pesante con grinta e dedizione! Nel frattempo, le donne partoriscono: mentre assistevo una ragazza al letto numero 2, sentivo l’acqua per lavare i pavimenti scorrere sotto le mie scarpe… ma tutto bene!

    Uno dei giorni più emozionanti è stato in occasione della mia cerimonia di addio… ho pianto tutto il tempo! È stato il raccolto di quello che ho seminato, ho fatto turni di notte di dodici ore, ma la riconoscenza dello staff è stata sorprendente. Hanno organizzato per me una suggestiva celebrazione, con fiori, striscioni, si sono stretti a me! Come durante altri momenti di convivialità: si pranzava sempre tutti insieme, mangiando con le mani e imboccando l’ospite in segno di omaggio.

    Eccomi alla fine di un’esperienza che ha toccato la mia anima più intima. Sto ascoltando Bob Marley che canta “Don’t worry about a things, cause every little thing is gonna be alright”. Mi si strige il cuore e una lacrima scende. Paola, farmacista che è arrivata in Africa con me, appena atterrate, mi aveva avvisata: “O ti innamori profondamente, o in Africa non ci torni più”. Io credo che questo famoso “mal d’Africa” mi abbia già raggiunto, nonostante stia ancora respirando aria etiope e abbia addosso l’affetto di chi ho lasciato a Wolisso. Sicuramente, la parola che più mi è stata detta nel corso di questa esperienza è proprio አትጨናነቅ/Atichenanek”, ovvero “Dont’worry”. Questo viaggio mi ha cambiata, mi ha permesso di vedere la mia vita da una prospettiva diversa, di apprezzare ciò che ho e di cambiare quello che non desidero più. La paura che i colleghi e amici etiopi mi hanno confidato è che, fra pochi giorni, una volta tornata a casa, mi possa dimenticare di tutti loro. Quello che non sanno è che sono cuciti per sempre nel mio cuore. Non posso dire altro che “Ameseginalew, galatomi, thank you, grazie!”».

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