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Non solo la fame

Ayen, dal Sud Sudan, racconta come l’insicurezza alimentare abbia profondamente cambiato la vita comunitaria nel suo villaggio

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    Non solo la fame. Dietro l’insicurezza alimentare, c’è un cambiamento profondo che attraversa comunità intere, modificando relazioni, ruoli e speranze. Ayen Manyuol Gak, 35 anni, madre di sei figli, viene dal villaggio di Malith, nel Sud Sudan. È ricoverata all’ospedale statale di Rumbek con la sua bambina di sei mesi, affetta da malnutrizione.

    «Le cose andavano meglio un tempo. Le piogge erano più prevedibili e la comunità era più unita. Ci si aiutava a vicenda, prestando i buoi per l’aratura o condividendo il cibo dopo i raccolti abbondanti. Oggi si può solo pensare al domani», racconta.

    Nello Stato dei Laghi, dove vive Ayen, il clima non segue più regole conosciute. Le inondazioni si alternano a siccità sempre più lunghe, distruggendo i raccolti e riducendo la produzione agricola.

    «Per coltivare servono i buoi, ma quasi nessuno li ha più – spiega – Chi prova a seminare rischia: se le piogge arrivano tardi, tutto va perso. E se arrivano troppo presto, anche».

    I terreni coltivabili si riducono, e con loro le possibilità di garantire un pasto regolare alle famiglie. Il prezzo della farina di mais, alimento base, è salito a 255.000 pound sud sudanesi — oltre 45 dollari — per un sacco da 25 chili: una cifra fuori portata per chi vive con stipendi pubblici che arrivano con mesi di ritardo, e valgono meno di 2 dollari al mese.

    La fame, però, non è solo mancanza di cibo. È anche frammentazione sociale, perdita di fiducia e di solidarietà. Un tempo, chi non aveva nulla poteva contare sui vicini. Oggi chi è povero viene spesso evitato, perché tutti temono di non avere abbastanza. Le famiglie si restringono, o si allargano in modo precario: parenti e conoscenti si trasferiscono nelle case di chi ha un lavoro o un po’ di cibo, facendo crescere i consumi e aumentando la tensione.

    A pagare il prezzo più alto sono le donne e i bambini. Insicurezza alimentare, infatti, significa anche l’incremento dei matrimoni precoci: in alcune famiglie, capita che appena una ragazza abbia le prime mestruazioni, venga data in moglie a un uomo ricco di bestiame. È l’unico modo per garantire qualcosa da mangiare.

    Anche l’istruzione si ferma: tanti bambini lasciano la scuola perché le famiglie non possono più permettersi le rette. Ogni anno perso tra i banchi diventa una barriera in più per il futuro. E l’analfabetismo pesa anche sull’agricoltura. «Molti non sanno come far ruotare le colture o quando seminare», racconta Ayen. Così i raccolti si esauriscono in fretta e, quando arrivano i giovani dai campi di bestiame, consumano tutto ciò che gli anziani hanno prodotto.

    La fame, in Sud Sudan, non è solo una condizione biologica. È un processo che disgrega. Cambia le priorità, i legami, i sogni.

     «Un tempo, con due dollari si viveva due giorni. Oggi, dieci non bastano per uno solo. Nessuno sa come sarà la vita l’anno prossimo – dice Ayen. – Ma se torneranno le piogge giuste, forse anche noi potremo tornare a vivere insieme».

    Nel racconto di Ayen c’è il senso profondo della Giornata mondiale dell’alimentazione: la fame non è mai solo mancanza di cibo, ma di equilibrio, di pace, di futuro. Garantire sicurezza alimentare significa restituire stabilità e dignità alle comunità. Significa, in definitiva, ricostruire la vita dove oggi c’è soltanto sopravvivenza.

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