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Riannodare il filo che unisce i destini dei popoli

Giovanni Torelli, medico Cuamm e rappresentante paese in Tanzania, ci racconta che cosa significa per lui costruire ogni giorno #lostessofuturo in Africa.

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    Giovanni Torelli, medico Cuamm e rappresentante paese in Tanzania, ci racconta che cosa significa per lui costruire ogni giorno #lostessofuturo in Africa: «Occuparsi del diritto alla salute, in contesti in cui il diritto alla salute non solo non è garantito ma la gente non sa neppure di averlo, vuol dire riannodare quel filo spezzato che unisce i destini dei popoli del nostro pianeta. La salute di base, con la scuola, rappresenta il perno per lo sviluppo e la crescita di una popolazione, di una comunità, di una società. Garantire la salute materno-infantile attraverso il programma “Prima le mamme e i bambini. 1.000 di questi giorni” significa aderire agli obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite; significa combattere le morti neonatali e materne di parto dovute a complicanze ostetriche intollerabili per chiunque, non solo per chi svolge la professione di medico, e qui, in Tanzania, si verificano con una frequenza 100 volte superiore rispetto all’ Italia! E ancora, significa occuparsi dei primi 1000 giorni di vita, i più importanti per lo sviluppo del bambino, e che comprendono tutta la gravidanza, il momento del parto, i primi 6 mesi con l’allattamento esclusivo al seno, e poi lo svezzamento e la crescita; ma più di ogni altra cosa, significa creare un legame con persone che potranno pienamente svilupparsi sia da un punto di vista fisico che cognitivo, e concorrere alla crescita di un paese. Prendersi cura dei bambini, per me vuol dire, in prospettiva, prendersi cura degli adulti di domani, che potranno liberamente scegliere cosa fare della loro esistenza: questa dovrebbe essere la condizione più giusta per ogni “cittadino del mondo”. Una condizione che purtroppo, molte volte, non è garantita alle popolazioni più fragili, spesso costrette a scappare da conflitti, guerre e carestie, a non essere accolte, a rischiare la propria vita, obbligate ad un destino che le allontana dal resto dell’umanità.
    Riannodare quel filo, per noi medici che operiamo in Africa, ha molti significati: integrarsi con la popolazione e le autorità locali senza sostituirsi al loro intervento, entrare in relazione, fare comunità, conoscere i luoghi e le storie dei nostri colleghi e dei nostri pazienti, e ancora, comprendere i dati su cui sviluppare nuove progettualità, mai calate dall’alto, ma costruite insieme, sulle problematiche reali, quel “con” che qualifica il nostro lavoro, che lo rende sostenibile per i locali, e che ci permette di riannodare quel filo ogni giorno.
    Purtroppo oggi la paura spezza questo filo e porta ad un atteggiamento di chiusura nei confronti dell’Africa, ma questa è una grande perdita per tutti e chi ha avuto il privilegio, talvolta difficile, di aver operato in questo continente, lo sa. L’energia che sprigiona questo terra e questo popolo è contagiosa e ci aiuta, a riscoprire nel quotidiano l’armonia delle cose piccole, che spesso sono quelle più importanti.
    Abbiamo lo stesso futuro: se riannodiamo il filo che ci unisce, senza lasciare indietro nessuno, possiamo davvero costruire un futuro più giusto e inclusivo per tutti».

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