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Repubblica Centrafricana Effetto lockdown

In RCA si cerca un compromesso tra isolamento e movimenti indispensabili: scarseggiano i dispositivi di protezione, l’approvvigionamento di farmaci è rallentato, ma di malaria e morbillo si continua a morire come prima

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    «Subito dopo il 14 marzo, quando a Bangui è stato identificato il primo caso di Covid-19, il governo ha preso provvedimenti in fretta, imponendo restrizioni agli spostamenti e alle attività, per ridurre la diffusione del coronavirus. Il problema, oltre al rischio della diffusione del virus, riguarda le conseguenze di questi blocchi. Essendoci meno aerei in arrivo, rifornirsi di materiali di protezione e soprattutto di farmaci per le malattie più comuni è ancora più difficile di prima. Oggi ci vuole molto più tempo perché questi beni indispensabili arrivino a destinazione, con un impatto indiretto sulla salute delle persone ancora più grave».

    Così Marina Panarese, country manager di Medici con l’Africa Cuamm in Repubblica Centrafricana, racconta la situazione del Paese in cui lavora da quasi due anni, dove ad oggi i casi di Covid-19 sono 50. Uno stato al penultimo posto nell’indice di sviluppo umano, con un sistema sanitario estremamente fragile, messo alla prova da tensioni interne e da malattie come il morbillo (un’epidemia è in corso da gennaio 2020), ma anche malaria e malnutrizione, che continuano nel paese ad essere molto più letali del coronavirus.

    «Abbiamo rivisto i nostri progetti – racconta Marina Panarese – e inserito attività di formazione e sensibilizzazione sul Coronavirus, puntando sulla prevenzione. Il virus ha fatto aumentare il lavoro: non potevamo eliminare nessuna attività, perché la situazione sanitaria era già molto critica prima».

    Le conseguenze dei blocchi sulla salute

    Il problema della logistica in queste settimane di blocchi a livello globale è molto evidente in Repubblica Centrafricana:

    «Siamo in un paese che non ha sbocchi sul mare, che dipende dall’estero importando merci via cargo e camion. Da quando sono stati praticamente cancellati i voli, reperire materiale sanitario di qualità è ancora più complicato. Noi ci stiamo organizzando, anche grazie ai contatti del nostro staff locale, per produrre mascherine e tute qui, con le sarte della città. Ci ingegnamo anche in altri modi: il nostro farmacista Albert, per esempio, ha cominciato a produrre un gel disinfettante a base alcolica seguendo le indicazioni dell’OMS e lo distribuiamo in ospedale riutilizzando i flaconi vuoti di sapone. Con gli infermieri invece abbiamo costruito delle visiere utilizzando dei fogli di acetato».

    Chiudere tutto impedirebbe la diffusione del contagio, ma rischia di fare aumentare gli effetti collaterali dell’epidemia. Oltre al mancato accesso al cibo per intere famiglie che già vivono sotto la soglia di povertà, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha messo in guardia sul rischio che, per le restrizioni agli spostamenti di merci e quindi alla distribuzione di zanzariere e farmaci, le morti per malaria possano raddoppiare quest’anno, arrivando a 800.000 nel continente.

    Quando il paese ha annunciato la chiusura delle frontiere, come molti colleghi cooperanti, anche Marina ha dovuto scegliere se tornare a casa o rimanere. Decidere non è stato facile:

    «Quando penso che l’occidente, il mondo che definiamo “sviluppato” è stato messo così in crisi dal virus, mi domando cosa potrebbe succedere se arrivasse qui con la stessa forza. Per questo anche noi stiamo puntando molto sulla prevenzione. Sappiamo che non siamo indispensabili qui, ma siamo utili, forse un po’ più che in Italia».