My boyfriend Un soffio di vita vera
«La verità è che quando entri nel reparto Malnutrizione a Pujehun vorresti abbracciare tutti questi bambini, tornare indietro nella loro storia e strapparli a quella sorte». Ottavia Fornaciari è una giovane specializzanda in Ginecologia di Milano. Da due mesi si trova in Sierra Leone.
Sono a Pujehun, in Sierra Leone, dove sto trascorrendo sei mesi nel Maternity Hospital come specializzanda in ginecologia. Poco dopo il mio arrivo, in piena stagione delle piogge, vengo chiamata nel Reparto Malnutriti per visitare un bambino con la febbre alta e la tosse.
A Pujehun per fortuna i ruoli e i reparti sono meno rigidi rispetto alle strutture che conosciamo: qui ci si dona completamente e si mettono le proprie conoscenze – e la propria energia – al servizio dell’ospedale. Quindi, senza tanti “se” e tanti “ma” seguo l’infermiera che mi indica il bambino. Steso per terra, vicino alla madre, con la bocca e il naso sul pavimento sporco. La scheda di Youssef dice che ha 3 anni. Resto senza parole perché il bambino pesa 5,5kg: un mucchietto di ossa e un testone sproporzionato, color cioccolato fondente. Non oso immaginare come potesse essere quand’è stato ricoverato, quando pesava 4,8kg. Da noi un bambino di 3 anni pesa tra i 12 e i 15 chili. Il bambino era rovente, avrà avuto 40 di febbre, il respiro affannoso, la tosse e due occhi neri, fluidi, enormi ma vitrei. Ho ipotizzato una polmonite.
Da quel giorno, ogni giorno, ho controllato più volte Youssef, mi sentivo di dover vigilare in modo speciale su quei grandi occhi. Non mi davo pace nel trovare la madre così distaccata, impegnata a fare qualcosa in cortile, magari a prepararsi il cibo o fare il bucato. Finché un giorno, trovando il bimbo per terra, per l’ennesima volta da solo, non ce l’ho più fatta. Ho chiesto aiuto a un’infermiera locale e ho fatto tradurre dall’inglese al mende (la lingua locale) i miei moniti e le mie indicazioni per la madre. Ho potuto, finalmente, dare voce alla domanda che mi tormentava e mi tormenta: come aveva potuto, questa donna apparentemente non denutrita, lasciare che il suo bambino, Youssef, si riducesse così? Il dramma è che non c’è una vera o un’unica risposta, non esiste un chiaro “perché”. Famiglie in cui i mariti fanno smettere alle mogli di allattare perché il seno non diventi cadente o perché si pensa che una volta ricominciati i rapporti sessuali il latte materno diventi impuro; lo “svezzamento” talvolta inizia a 1, 2, 3 mesi, a base di quello che mangiano gli altri membri della famiglia, fondamentalmente riso e cassava leaves (foglie di manioca) che sarebbero ricche di vitamine se non fossero ribollite per ore e mescolate a spezie piccanti e burro d’arachidi. Era stato così per Youssef e molto probabilmente per il fratellino maggiore, morto a 6 mesi. Un altro fratello era morto al parto. Quanto possono essere smisurate e difficili da comprendere le differenze culturali? Quanto possono essere impenetrabili i muri della tradizione? Mi sono imposta di capire. Di non fermarmi al mio primo istinto, di non pretendere di essere “quella che sa come si fa”; anche perché nei visi seri delle donne che incontro qui, sprofondo davvero, trascinata da mille punti interrogativi.
Nel giro di qualche giorno, grazie alle cure e all’alimentazione, Youssef ha iniziato a star meglio. Sempre scheletrico, ma sfebbrato, col respiro più libero e, finalmente, più vivace. Ha continuato a prendere peso, e mi viene da ridere, e piangere insieme, se penso alle inezie di cui stiamo parlando: grammi, su un corpo che pesa già un terzo di quanto dovrebbe. Ma è così che funziona, e che almeno inizialmente deve funzionare: piano, piano. Poi, un giorno, mi ha sorriso, e in quel sorriso io ho visto milioni di cose: prima di tutto il mio cuore sciogliersi, poi un soffio di vita vera che avevo avuto paura non potesse tornare più, dietro quegli occhi velati. Ho visto la fiducia di chi ha imparato a non avere paura “dell’uomo nero” che qui è l’uomo bianco. Ha iniziato a sorridermi persino la mamma, che ha capito che tornavo così tante volte al giorno perché ci tenevo davvero a loro.
Mi sono così affezionata a quel piccolino che le infermiere, e tutti in ospedale, lo hanno ribattezzato “Your boyfriend”. Arrivato in ospedale lo stesso giorno in cui mettevo piede a Pujehun, dopo un mese di ricovero, Youssef aveva raggiunto 5,8 chilogrammi. “You have to discharge your boyfriend” (Devi dimettere il tuo fidanzato), mi hanno detto un giorno le infermiere. È così che funziona: il reparto è per le urgenze, per i casi limite, e una volta stabilizzati e, auspicabilmente, “posati” sulla retta via, i bambini si devono dimettere.
La verità è che quando entri nel reparto Malnutrizione a Pujehun vorresti abbracciare tutti questi bambini, tornare indietro nella loro storia e strapparli a quella sorte che invece è istantanea, lì davanti a te. Vorresti salvarli e portarli via. Youssef è stato speciale, il primo amore che non dimentichi mai, “My boyfriend”, ma io non ho smesso di andare nel Reparto Malnutrizione ad occuparmi degli altri, così come delle “mie” donne in maternità, con una potenza emotiva reciproca che sto scoprendo qui e ora.
Ottavia Fornaciari specializzanda in Ginecologia, a Puejhun.