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Karibu! Benvenuti in Tanzania

Casa di Atim è in mezzo alla comunità ed è aperta alla comunità. Quando è arrivata l’hanno accolta. Atim infatti mi ha raccontato che per la gente qui non esiste che qualcuno la sera ceni da solo, per cui una delle famiglie aveva iniziato ad invitarla tutte le sere a cena e adesso lei è considerata membro di quella famiglia.

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    Lo scorso fine settimana sono andata a trovare Atim, la mia collega infettivologa, a Bugisi. Shinyanga, il capoluogo della regione in cui lavoriamo in Tanzania, è una città e quindi è più dispersiva, mentre Bugisi è una comunità che vive intorno al centro di salute e alle case dei religiosi, il tutto circondato dalla campagna.

    Arrivare là è stato un esperimento di autonomia: mi sono lanciata nell’utilizzo dei mezzi pubblici! Funziona così: si prende un pikipiki (motorino) e si cerca di farsi portare ad un posto chiamato Fantom, sperando che lìautista non faccia ulteriori domande e capisca al primo colpo, perché, altrimenti, lo swahili non è ancora sufficiente a procedere nella conversazione. Dal Fantom partono dei minibus. A che ora? Quando sono pieni! Ci si siede e si aspetta che altra gente arriva sul pulmino. Mi hanno salutata con un caloroso karibu, che significa “benvenuta”, e mi hanno dato il posto davanti, quello vicino all`autista, il posto più comodo!

    Io avevo memorizzato bene la mia fermata ma, sul pulmino, avevo già una serie di angeli custodi pronti a farmi capire qual era il momento in cui scendere. Tra i passeggeri c`era anche un`amica di doctor Atim che ha indovinato che andavo a trovare lei e, insieme ad altri, mi ha suggerito anche quale pikipiki prendere al termine della corsa del pulmino.

    L’ultimo tratto, quello appunto in pikipiki, attraversa una campagna verdeggiante, con pochissime costruzioni umane e piena di risaie. Atim mi ha poi spiegato che oggi è così, ma solo lo scorso anno era completamente secca per le piogge scarsissime.
    Scesa dal piki piki Atim mi stava già venendo incontro, portata per mano da dei bambini che mi avevano visto arrivare ed erano andati ad avvisarla.

    Casa di Atim è in mezzo alla comunità ed è aperta alla comunità. Quando è arrivata l’hanno accolta. Atim infatti mi ha raccontato che per la gente qui non esiste che qualcuno la sera ceni da solo, per cui una delle famiglie aveva iniziato ad invitarla tutte le sere a cena e adesso lei è considerata membro di quella famiglia. Non è così perché è bianca o perché è un medico: qui se qualcuno è da solo si unisce agli altri. Casa di Atim adesso è aperta a tutti loro. C’è chi passa a salutare, chi a mangiare: è come se fossimo continuamente dentro una solo e unica comunità.

    In questi casi penso sempre a quanto spesso sento dirmi karibu qui e a quanto poco lo diciamo in Italia. Ti dicono Karibu quando arrivi in un posto, quando bussi a casa di qualcuno, se qualcuno sta mangiando qualcosa e te lo offre (sempre), Karibu per alle bancarelle del mercato, Karibu quando un paziente entra in ambulatorio… Karibu, Karibu, Karibu… sempre, in ogni caso, Karibu!

    Anche in ambulatorio, la sensazione è davvero che in questo piccolo posto senza risorse il paziente sia sempre il benvenuto. Noi medici infatti lavoriamo fianco a fianco con gli operatori di salute comunitari e spesso i nostri pazienti sieropositivi sono ben conosciuti dagli operatori. Ogni paziente è affidato a un operatore comunitario, che ha il compito di chiamare il paziente se non viene più in ambulatorio, di aiutare il dottore a spiegare che cos`è l’HIV, come funziona la terapia, come ci si nutre in maniera adeguata. Molto spesso gli operatori vanno fino a casa del paziente, se ci sono problemi particolari.

    Questa conoscenza profonda della realtà e delle situazioni fa sì che, a volte, la visita si trasformi. Ci si trova presto nel bel mezzo di una specie di riunione di famiglia, più che ad una visita ambulatoriale. Se c’è un problema vedi davvero tutti gli operatori comunitari essere coinvolti. Molti dei nostri del centro di salute di Ngokolo sono a loro volta sieropositivi e quando parlano con il paziente hanno una capacità di comprendere le paure, i problemi e i timori molto superiore alla nostra.

    Penso che questo clima di accoglienza, insieme alla prevenzione e alla conoscenza degli aspetti comunitari qui sia la chiave del nostro lavoro contro l’HIV. Essere accoglienti costa poco, ma può portare a grandi risultati.

    Noemi Bazzanini – Specializzanda in Malattie Infettive in Tanzania con il progetto Jpo

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