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Avere una chance in più

Cambiare le condizioni che determinano la malnutrizione è la sfida più grande. Alessandra, pediatra rientrata da Wolisso, ci racconta la storia di Alami, una dei tanti bambini affetti da malnutrizione acuta in Etiopia.

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    «La storia di Alami ha accompagnato sin dall’inizio, la mia missione a Wolisso, in Etiopia. L’ho incontrata la prima volta a maggio. Sembrava una bambola, seduta sul lettino nella stanza dei bambini con malnutrizione acuta (SAM). Era bellissima, ma ferma, immobile nel suo lettino, come stanno solo i bambini malnutriti. Ha catturato il mio cuore. La sua mamma portava sulla schiena un bambino di pochi mesi. Alami era alla fine della fase acuta, stava mangiando il PlumpyNut e, a breve, doveva passare alla fase 2, quella del consolidamento, della prova dell’appetito e poi, se tutto procedeva bene, sarebbe potuta tornare a casa. La famiglia è originaria di Wonchi, un villaggio montano a 3.000 metri di altitudine; abitano sui bordi di un vulcano spento, un’area bellissima, abitata da gente poverissima.

    L’ho fotografata allora e poi di nuovo quando stava andando a casa felice, prima sgambettante con le sue ballerine di plastica, minuscole, elegantissima, poi sulla schiena della mamma, perché bisognava affrettarsi per arrivare a casa prima del buio.

    La prima parte della mia missione si è conclusa alla fine di maggio; a giugno sono rientrata in Italia, poi ai primi di luglio sono tornata a Wolisso, per 2 mesi, fino ad agosto.Proprio a metà luglio scorgo una bambina molto malata, passiva, quasi assente, che ciondola sulla schiena della mamma. È ricoverata nella prima stanza, quella dedicata ai gravi malnutriti, ai SAM appunto. La mamma mi chiama, a gesti mi indica la sua bambina, vuole che la guardi, che la visiti subito. Non la riconosco ma la mamma riconosce me, insiste, mi insegue e io, così presa dai tanti ricoveri continuo a non capire. A un certo punto, chiedo all’infermiere di spiegarmi cosa questa mamma vuole da me e lui mi risponde: Ma dottoressa è la mamma di Alami, non se ne ricorda?”. Resto senza parole. Ora riconosco la mamma, ma Alami no, non è più la bambina che avevo visto a maggio. Quella di oggi è molto malata, senza capelli, con la pelle di quel colore tipico dei bambini gravemente malnutriti, il suo sguardo è spento, assente, ciondola, è febbrile. Cosa le è successo? È successo che, una volta rientrata a casa, ha trovato le stesse condizioni di vita che avevano determinato il primo ricovero, niente o poco cibo per tutti, niente lavoro, niente soldi per acquistarlo. E dopo il primo follow up, e il sostegno con cibo che l’ospedale ha fornito, la mamma non è più tornata. Ora la bambina è gravemente malnutrita e ha sviluppato una sepsi.

    Sono affranta, in crisi e mi confronto con Sifra, la collega etiope che si occupa dei bambini malnutriti. Anche lei è preoccupata, non sa se riuscirà a “tirarla fuori” dalla malnutrizione una seconda volta. La mamma ci sembra assente, incapace di occuparsi dei suoi due bambini. Così appare soprattutto a Sifra che è critica sulle stesse capacità materne. Rifletto, sono turbata. I colleghi etiopi definiscono la malnutrizione di Alami come “tipica”: si realizza quando nasce un fratellino che si porta via il poco latte della mamma; quello più grande resta senza cibo.

    Ne parlo con Meaza, la fisioterapista formata e attenta anche sugli aspetti relazionali; le parlo dei sospetti sulla mamma: ha forse spostato attenzioni, cure, affetto sul nuovo nato e non c’è più spazio per Alami? Meaza coinvolge la psicologa locale, accreditata per i bambini malnutriti nell’ambito del progetto “Semi di futuro”. Le chiediamo di incontrare questa mamma con i suoi due bambini per darci il suo punto di vista e, da qui, arriva una vera sorpresa. La psicologa mi riferisce di una mamma competente, attenta e capace ma totalmente disperata, perché non ha di che dar da mangiare ai suoi bambini oltre che a sé stessa, naturalmente. A casa ci sono altri due fratellini più grandi, una nonna, nessun uomo che lavori e che si occupi di loro. La donna non sa come fare, sa che quando finirà questo ricovero, anche se Alami ce la farà, torneranno a casa e tutto sarà come prima. Anche il suo ultimo nato, di pochi mesi, inizia a non crescere più come dovrebbe.

    Il mio cuore si riempie di tristezza, amarezza, e anche rabbia. Rabbia per un mondo che affronta in modo efficiente la cura della malnutrizione, ma non arriva a fare abbastanza per cambiare le condizioni che determinano la malnutrizione: povertà, solitudine, indigenza, mancanza di tutto. La malnutrizione non è una malattia che ha origine nella nostra fragilità umana, è una malattia indotta, determinata da una profonda ingiustizia.

    Rifletto, prego, e penso che questa volta Alami e la sua famiglia debbano avere una chance in più. Sifra se ne occupa egregiamente, applicando “l’arte della cura della malnutrizione”, frutto dei protocolli ma soprattutto della sua esperienza maturata curando tanti bambini, della sua sensibilità nel capire quanto ogni bambino sia diverso dall’altro e quanto abbia bisogno anche dell’amore di chi se ne prende cura perché abbia “voglia” di emergere dallo stato depressivo in cui la malnutrizione l’ha gettato. E così succede che anche questa volta Alami ce la fa. Un bel giorno la vedo saltare giù dal letto, correre su e giù per il reparto, seguire ogni mattina il nostro giro visite, chiamarmi quando mi vede arrivare, iniziare a parlare, chiedere “caramella” con forza e convinzione. Cerca l’attenzione e l’affetto di tutti, è rinata alla vita e anche la mamma recupera il sorriso.

    Arriva il giorno della dimissione, si torna a casa, con una scorta di cibo che la caposala Sizay le ha acquistato. Ma questa volta, in più, con i soldi per comperare cibo anche per la famiglia che li attende a casa, soldi per tornare al follow up, di lì a 15 giorni, denaro raccolto in una piccola, grande gara di solidarietà tra gli operatori dell’ospedale.

    Alla fine di agosto, giorno del mio compleanno, Alami torna al follow up: è cresciuta di peso, la sua pelle è migliorata e così i suoi capelli; è allegra, vivace, mi salta in braccio, si accoccola tra la mia spalla e il collo. È un sogno vederla così, un regalo.

    Torna a casa ancora con del cibo e la seconda parte dei soldi necessari a sostenere tutta la famiglia e per tornare al prossimo follow up. Si decide con la caposala che per lei il follow up sarà ogni 15 giorni, in modo da sostenere economicamente l’intera famiglia e far sì che Alami non abbia ricadute; l’esperienza insegna che il recupero dalla malnutrizione non è scontato e sempre più difficile ad ogni ricaduta.

    Per quanto tempo riusciremo ad assicurare questo aiuto speciale? Fino a quando ci sarà qualcuno che si innamorerà di questa bambina; i tanti che l’hanno conosciuta, amata e hanno dato il loro contributo. Si naviga a vista.

    Qualcuno potrà dire che Alami è solo una dei tanti bambini malnutriti e chissà chi penserà agli altri. Ai tanti altri. Ma l’Africa mi ha insegnato che questo genere di pensieri ci paralizza, ci schiaccia su un quotidiano senza speranza. Se non possiamo risolvere i “macro” problemi, ci restano i “piccoli problemi quotidiani” che possiamo affrontare e magari risolvere».

    Alessandra Ometto, Pediatra e Neonatologa rientrata da Wolisso, Etiopia

     Medici con l’Africa Cuamm è presente nell’Ospedale St. Luke di Wolisso, in Etiopia, dal 2000. Tra i tanti servizi di salute garantiti, si impegna per contribuire a ridurre la malnutrizione nella South West Shoa Zone attraverso un approccio integrato di prevenzione, trattamento e riabilitazione nutrizionale, in particolare dei casi di malnutrizione acuta severa. Oltre al miglioramento dell’accesso e della qualità dei servizi sanitari e nutrizionali, il Cuamm promuove attività di sensibilizzazione a livello comunitario. Questo impegno quotidiano è reso possibile anche grazie al progetto “LIFE: Intervento Integrato per la Lotta alla Fame nella South West Shoa Zone”, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con la quota IRPEF dell’otto per mille.